Washington, Congressional Research Service della Library of Congress. È l’ufficio che supporta tutti i processi legislativi del congresso americano. In una democrazia parlamentare camere e governo lavorano insieme.
Ma nell’America presidenziale, il parlamento è in dialettica con il presidente.
Lì è un altro lavorare: ci si documenta, si scrutano argomenti pro e contro. Si organizzano conferenze, audizioni. L’obiettivo è o limitare il presidente o ottenerne l’appoggio per far passare una legge. E poi, ben più che da noi, ciascun componente rappresenta gli interessi del suo Stato i quali premono fisicamente su Whashington.
«L’ultimo dei problemi, per un congress man» – dice il direttore Mulhollan – «è acquisire informazioni da parte dei gruppi di pressione. Ogni giorno bussano alla sua porta rappresentanti di associazioni, gruppi, lobbies del suo stato e di altri stati. Chiedono, informano, passano dati, proposte e soluzioni».
Ciò che occorre, invece, è l’informazione obiettiva, scientifica, imparziale. E allora ecco il CRS: ci lavora un esercito di 300 ricercatori, 700 membri del personale, 850.000 consulenze l’anno. Lavorano letteralmente su tutto: dalle crisi bancarie, al prezzo del grano, dal terrorismo alle politiche familiari, dai poveri ai nuovi materiali. Vederli in azione è impressionante: dispongono di paper pronti e aggiornati praticamente su qualsiasi argomento. I materiali nascono dalla domanda di un senatore o di un componente del Congresso, i ricercatori del CRS producono un testo, rivisto da un esperto esterno e da una commissione interna per verificarne l’obiettività e il rigore. Il paper viene consegnato, discusso, aggiornato e inserito nella rete intranet del Congresso. Ci si trova così ad avere a disposizione un’enciclopedia in progress su qualsivoglia questione di attualità.
Il parlamento più importante del mondo, che può contare su tale potenza di fuoco, ci riceve curioso di sapere della Lombardia e della sussidiarietà.
Pranzando nell’ufficio del direttore, racconto del principio di sussidiarietà, di questi anni di governo in Lombardia, delle innovazioni, delle resistenze e dei successi. Ascoltano con interesse, anche quando osservo che la radice della sussidiarietà è il desiderio e la capacità di bene e che per loro, a causa dell’impostazione politica di cui godono, è apparentemente più facile che per noi. Hanno una tradizione diversa.
Eppure c’è qualcosa che non mi convince: quando pongo loro la questione del futuro della democrazia nelle scelte particolarmente problematiche chiedo come fanno a non cadere vittime della tecnocrazia. Oggi un’assemblea rappresentativa è chiamata a pronunciarsi su questioni difficili persino da capire, come gli ogm, le biotecnologie, le questioni ambientali, le stesse priorità di intervento in campo sanitario. Il progresso ci ha messi in condizione di potere e dovere decidere tra alternative prima inimmaginabili e adesso sconosciute.
Come si decide su materie complesse? E qual è il ruolo di chi – come loro – è chiamato a fornire le informazioni necessarie alle decisioni?
Mi rispondono che queste sono materie private, non pubbliche. Non ne sono convinto e, così, invito Mulhollan a Milano a discuterne. Il giorno dopo mi scrive che accetta di lavorare insieme per lo sviluppo della democrazia rappresentativa.
Philadelphia, Penn University, conversazione con gli studenti del Program for Internationa Relations. C’è anche il direttore e il vice direttore del programma. Anche qui si parla di sussidiarietà, di Lombardia, di cosa significa fare ricerca per il governo di una regione che innova. Parlo di un principio che loro vivono come pratica quotidiana, ma che in Lombardia si sta costruendo come prassi di governo in un contesto opposto al loro. Sono colpiti e mi chiedono suggerimenti per gli studenti di relazioni internazionali. Rispondo che può sembrare strano, ma forse chi si occupa di relazioni internazionali e di policy research è bene torni alle ragioni di fondo, perfino alla metafisica e al “senso delle cose”, perché è in merito anche alle “cose ultime” che la politica viene chiamata a decidere. Anche loro sono colpiti. Il direttore chiede di poter mandare studenti a Milano.
Gli Stati Uniti sono la terra promessa per Locke e per Toqueville, una nazione dove il “profumo del locale” come diceva Locke, conta più della (e ispira la) norma. È la terra della libertà, dell’unità per il bene. Il “sogno americano” si respira ancora. Nel barbone assopito sulla 42ma strada di New York con la bandiera in mano e nell’elegante pranzo alla Library of Congress. Senti e sai di essere un’opportunità. Ciò che porti con te e ciò che desideri viene preso davvero in considerazione e conta, ciò che vuoi e puoi fare interessa.
Quando chiedo a Mulhollan come fanno a tenere ricercatori che guadagnerebbero il doppio altrove mi risponde che essi rimangono perché sentono di partecipare al cambiamento del mondo. Non c’è retorica nelle sue parole. È il ragionamento di un dirigente di una grande impresa. E penso a noi italiani, a un Paese dove lavorare per la politica è un mezzo e non un fine. Penso al buon Brunetta e ai suoi legittimi e meritori sforzi. L’America è come se partisse da condizioni che noi inseguiamo faticosamente. Dal centro del parlamento di Washington si riconoscono i tratti di una tradizione che ha fatto dell’energia del cuore il motore del bene pubblico. Si sente che qui Hobbes, Russeau, Robespierre e Napoleone non hanno vinto. Lì la legge è strada per sostenere l’intrapresa personale e collettiva. Da noi è uno strumento di controllo dei rischi del tuo desiderio, potenzialmente pericoloso. Lì il bene comune si costruisce attraverso i desideri delle persone; da noi nonostante essi.
È un trionfo del positivo del desiderio personale. Anche di fronte al dolore. Il 12 settembre Susan mi accompagna a Ground Zero. È una sopravvissuta del 60mo piano della seconda torre. Mi racconta tutti i minuti di quella mattina. E i giorni e i mesi successivi, quelli della ripartenza. E la sua vita, di come è cambiata. «Sono una persona migliore, adesso» – dice. «Perché ho più fede. Fede in Dio e voglia di costruire».
Non è tutto perfetto. Gli americani non sono migliori di noi. Sanno compiere il male esattamente come tutti gli altri. Ma questo attiene alle conseguenze, alla tradizione storica.
È il punto di partenza, che li rende diversi. L’idea che si parte da un positivo, che è il tuo desiderio, e che ci si può mettere insieme per costruire.
Eppure, durante e dopo il viaggio, ho l’impressione che quanto abbiamo compiuto in Italia in questi anni di battaglia per la sussidiarietà, sia come e più del sogno americano. Mi pare che questa terra della libertà abbia ancora bisogno delle ragioni per cui è se stessa. Un paese delle meraviglie senza chiave, ma pronto a riconoscerla.