In un precedente editoriale, avevo messo in evidenza che di fronte a una riforma come quella del federalismo fiscale, con tutta probabilità, si sarebbe costituito un partito trasversale, che avrebbe fatto di tutto per impedirla. Lo avevo chiamato il “partito della rendita”.
La previsione, purtroppo, si è puntualmente realizzata. In questo mese si è assistito, infatti, a una serie di attacchi e di “scongiuri” trasversali davvero poco spiegabili rispetto a quella che appare la più decisiva riforma dello Stato italiano alla luce del principio di responsabilità. È forte il sospetto che il vero bersaglio dell’attacco sia proprio questo principio.
Ho scritto molto sull’argomento, ho prodotto anche dati e numeri, non insisto sul punto. Mi limito ora a proporre un caso: quello della Spagna negli anni ‘80. In tutti i manuali giuridici ed economici spagnoli, riguardo a quel periodo, si descrive questa situazione: si è cambiata la Costituzione, si sono dati maggiori poteri legislativi e amministrativi alle Comunità Autonome, ma non si è data loro responsabilità impositiva; questa dissociazione tra spending power e imposizione ha fatto esplodere i conti pubblici.
È chiaro: il processo federalista avviato con la Costituzione post franchista del 1978 aveva generato quella situazione, dove le Comunità Autonome spendevano, ma poi pagava lo Stato. Il rimedio – e il successo – del federalismo spagnolo è stato il federalismo fiscale, che da lì a breve venne avviato con decisione.
Ho citato il caso della Spagna degli anni ‘80 perché descrive esattamente la situazione dell’Italia di oggi: la spesa pubblica si divide ormai a metà tra Stato e sistema delle autonomie, ma a queste ultime il potere impositivo è limitato al 18%. Finché lo Stato rimane il pagatore di ultima istanza la spesa rimarrà incontrollabile e la trasparenza risulterà negata; il tutto a danno del contribuente e dei servizi erogati, ma con grandi guadagni per tutti quei soggetti che in questo sistema coltivano le proprie clientele.
Il caso recente dei medici di base siciliani rimborsati per oltre cinquantamila assistiti morti da tempo è emblematico del fenomeno. Lo hanno pagato tutti i contribuenti italiani, perché in Sicilia gran parte della spesa sanitaria è ancora a carico dello Stato e non della Regione. E nemmeno si può dire che un medico di base faccia la fame, quindi che rubi per sopravvivere.
Sono fatti che fanno riflettere e che pongono puntuali riserve su prese di posizione come quella di Casini (ha fatto bene Formigoni a replicare) che in nome della crisi economica arriva a dire un secco no al federalismo fiscale. In Italia il federalismo c’è già dalla riforma costituzionale del 2001: quello che manca è il federalismo fiscale, cioè il meccanismo che lo fa funzionare in modo virtuoso ed evita che degeneri in sprechi e rendite di vario tipo.
Grandi riserve si possono sollevare allo stesso modo su certe posizioni maturate in altre occasioni, quando (si veda, ad esempio, la posizione del presidente dello Svimez Novacco) si è creato un fronte del Sud che rivendica sussidi e non si sofferma minimamente su una nuova possibilità che il nuovo disegno di legge sul federalismo fiscale espressamente prevede.
Si tratta della fiscalità di vantaggio, prevista espressamente a favore di situazioni come quella del Sud. Eppure nessuno di questi presunti meridionalisti si è preoccupato di sostenere con forza questa che potrebbe essere una soluzione decisiva per rilanciare il Mezzogiorno. Una decisa riduzione della pressione fiscale a favore delle imprese localizzate nel Mezzogiorno creerebbe una serie di effetti positivi ad alto rendimento.
Si offrirebbe al Sud una possibilità analoga a quella dell’Irlanda, che proprio grazie alla riduzione della pressione fiscale sulle imprese, negli ultimi dieci anni ha avuto un tasso di sviluppo pari a tre volte quello della media europea. Con una simile soluzione, si eviterebbe il circolo della mafia e delle altre clientele, perché una riduzione della pressione fiscale impedisce in modo automatico che le risorse vadano a finire in bandi gestiti dal politico o dal burocrate colluso di turno.
Con una riduzione della pressione fiscale l’effetto è sicuro: solo chi effettivamente produce è premiato, non chi costruisce cattedrali nel deserto o altre strutture parassitarie: se non produci non benefici dell’effetto fiscale. Inoltre, una misura come la fiscalità di vantaggio favorirebbe l’emersione del sommerso, lo sviluppo del Pil, eviterebbe la delocalizzazione che molte imprese anche italiane fanno nei paesi dell’Est, dove l’imposta sulle società è la metà di quella italiana; meglio che vadano al Sud piuttosto che nell’Est Europa: il reddito prodotto rimane in Italia. Ci sarebbe quindi anche un ritorno per il Nord, che potrebbe trovare motivi eccellenti per accettare questa soluzione che andrebbe a vantaggio di tutto il Paese.
Eppure, come dicevo, questa soluzione non è stata invocata da nessuno dei meridionalisti scesi in campo contro la riforma: hanno continuato ha invocare sussidi assistenziali e per questo si sono visti minacciati dal federalismo fiscale che pure questa possibilità della fiscalità di vantaggio la prevede.
Un altro esempio a dimostrazione della trasversalità anche geografica della resistenza viene dal Nord: a Trento la coalizione che ha vinto le elezioni ha fatto “terrorismo” paventando effetti devastanti per la provincia autonoma nel caso fosse stata approvata la riforma sul federalismo fiscale.
Non era per nulla vero: basta leggere attentamente e anche osservare le critiche di chi come Manzella (Pd) ha accusato la riforma di essere troppo blanda nei confronti delle ricche regioni speciali del Nord. Anche in questo caso si è trattato della difesa di un’evidente rendita storica e non più giustificata: il reddito pro capite di Trento e Bolzano è maggiore di quello della Lombardia o del Veneto, ma queste provincie non danno nemmeno un euro al Sud per la perequazione; Lombardia e Veneto danno invece i due terzi delle loro imposte.
In conclusione: in una situazione di crisi come quella in corso, il pericolo non viene dal federalismo fiscale, ma dalla rendita che si alimenta nella mancanza di responsabilità e da un assetto istituzionale che la favorisce. Ma il partito trasversale della rendita tende a confondere le idee.