La proposta di legge di modifica del sistema elettorale per il Parlamento Europeo, dopo le aspre polemiche suscitate, torna in commissione alla ricerca – parole del premier – di “un’ampia convergenza”.

Quali sono, nel dettaglio, le novità che il disegno di legge attualmente in discussione intenderebbe apportare alla legge del 1979? Esse sono tre: l’introduzione di una soglia di sbarramento del 5%, la suddivisione del territorio in 10 circoscrizioni (contro le attuali 5) e l’abolizione del voto di preferenza. Rimarrebbe intatto l’impianto fondamentale della legge, basato su un sistema proporzionale di liste concorrenti.



Qual è lo scopo di questa riforma? Duplice. Le prime due misure (soglia di sbarramento e aumento delle circoscrizioni) vanno nella direzione della riduzione della frammentazione del sistema partitico e del completamento della transizione (infinita) verso un sistema bipolare (basti ricordare che nelle elezioni del 2004 una lista ha ottenuto un seggio con solo lo 0,7% dei voti validi). La terza misura – abolizione delle preferenze – attiene invece a tutt’altro profilo: il rapporto tra elettori ed eletti. Su questo aspetto, non più di quattro anni fa (legge 90/2004) si era scelta una strada del tutto opposta, aumentando il numero di preferenze e portandolo a tre per tutte le circoscrizioni (mentre prima era variabile).



Che valutazione possiamo dare di questa proposta nell’attuale delicata fase di riesame in commissione?

La prima finalità – e le due proposte conseguenti – appare certamente in linea con l’intento di semplificazione dello scenario politico italiano che ormai dal 1993 si sta faticosamente perseguendo e che, paradossalmente, sembra ormai essersi realizzato proprio per mezzo di una legge che lo stesso autore ha definito sbagliata (l’attuale cosiddetto “porcellum”, legge Calderoli n. 270/2005). Con le ultime elezioni politiche sono scomparse tutte le formazioni politiche esterne ai due poli (Pdl e Pd) con l’eccezione dell’Udc. La proposta per le europee avrebbe perciò lo scopo di “allineare” le elezioni europee alle politiche, evitando la rinascita delle formazioni minori (e forse anche dell’Udc) e dando una “stretta” a quelle formazioni interne del non ancora nato partito del Popolo delle libertà (vedi An, ma non solo) che potrebbero orientare il voto nelle liste.



La seconda finalità è quella di adottare anche per le elezioni europee il sistema della lista bloccata. È bene essere chiari: il sistema delle preferenze – come tutti i meccanismi elettorali – ha pregi e difetti. Tra questi ultimi c’è l’ampliamento dei costi delle campagne elettorali, l’aumento della conflittualità interna ai partiti, l’incentivo al clientelismo (basti considerare un dato: nelle elezioni regionali del 2005 soltanto il 26,6% degli elettori della Lombardia hanno espresso un voto di preferenza, mentre lo stesso voto era utilizzato dall’87,4% degli elettori in Calabria). Si aggiunga poi che, tecnicamente, l’abolizione delle preferenze nelle elezioni europee, per la struttura delle circoscrizioni ed il numero limitato di parlamentari da eleggere (78), ha un minor effetto rispetto alle politiche.

Resta però la questione fondamentale. La possibilità di scegliere i candidati all’interno di schieramenti politici sempre più semplificati è un fattore decisivo per la vitalità del nostro sistema democratico. È crescente e sotto gli occhi di tutti la “spettacolarizzazione” della battaglia politica, per cui il peso dei singoli candidati e di quello che essi (hanno fatto e) fanno all’interno delle rispettive formazioni politiche è sempre meno importante rispetto alla forza carismatica del leader. Non è un caso che questa legge elettorale permetta la possibilità di candidature multiple e per questo consentirebbe a importanti cariche (presidente del Consiglio, presidenti di Regione, sindaci di comune sopra i 15.000 abitanti) di concorrere anche in questa sede per “tirare” il voto popolare.

Un nuovo partito è nato di recente (il Pd) un altro sta nascendo (il Pdl), ma in entrambi è palese il deficit di pluralismo e dibattito interno. L’assenza di una possibilità di selezione affidata alle preferenze dei cittadini lascia, difatti, la scelta dei candidati tutta nelle mani dei meccanismi interni dei partiti. La selezione della classe dirigente è così sempre più saldamente nelle mani dei partiti (questi partiti) e la cosiddetta “società civile” o i – sempre meno visibili – “corpi intermedi” sono completamente tagliati fuori.

Le primarie potrebbero essere un correttivo, ma occorrerebbe farle sul serio e per ora non vi sono proposte a riguardo.

Uno studio promosso dalla Fondazione per la Sussidiarietà nel 2007 intitolato Sussidiarietà e riforme istituzionali mostrava che le due finalità di cui sopra hanno un ben diverso livello di gradimento popolare. Da un lato, infatti, è sempre più fortemente avvertito il bisogno di una maggior chiarezza negli schieramenti politici e la frammentazione certamente non aiuta tale chiarezza. Dall’altro, però, quello stesso rapporto segnalava la nettissima richiesta del voto di preferenza come di uno strumento di maggior “accountability”, per adoperare l’espressione inglese che sta a significare “responsabilità” politica.

Un ultima osservazione. Non sarebbe male se, oltre a discutere le regole per le elezioni europee, i due (o più) schieramenti cominciassero a dire chiaramente agli italiani anche che idea hanno di Europa e del suo futuro così incerto – rispetto, ad esempio, al trattato di Lisbona paralizzato dal no irlandese. L’Europa, per il peso concreto che ha, merita delle elezioni “vere” e non dei duplicati delle elezioni interne.

(Andrea Simoncini, Massimo Achilli)

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