Il fatto che, attraverso l’elezione di Barack Obama alla Casa Bianca, l’America abbia trovato una sua strada di redenzione, sembra un’assurdità da lasciare alla penna degli antichi colonizzatori inglesi, per mezzo dell’elegante ma un po’ spocchioso “The Economist”.

Gli Stati Uniti, come tutti i paesi del mondo, hanno molto da farsi perdonare, ma non tanto come i loro spesso improvvisati, irriducibili critici e prevenuti avversari, in genere cittadini di paesi che hanno da farsi perdonare guasti immensi nella storia più recente dell’umanità.



In realtà, in questo election-day 2008 , il fatto più intrigante è che il figlio di un nero keniota si aggiudichi la sedia più importante nella “stanza ovale” alla fine di una controversa storia americana multietnica, impregnata di violenza e di segregazione, per merito delle leggi sull’integrazione dei primi anni Settanta, voluta e varata da uno dei personaggi più contestati, in Europa, della storia degli Stati Uniti: il 37° Presidente, Lyndon Johnson, principale imputato della guerra del Vietnam.



Questo è l’evento nuovo, quasi travolgente per la storia degli States. Ha scritto con grande lucidità Lorenzo Albacete, alla vigilia del voto del 4 novembre: «È già sorprendente che Obama sia riuscito a superare queste preoccupazioni e ad arrivare dove è arrivato, e questo è una sorprendente rivelazione di come oggi gli americani stiano vivendo il dramma razziale, che è stato parte così integrante della storia della nazione».

In genere, tra i grandi commentatori, si è preferito porre questo aspetto, quasi rivoluzionario e veramente dirompente, all’interno della travolgente volontà di cambiamento degli americani, basata da un lato sugli effetti della grande crisi finanziaria e dall’altro sulle conseguenze della politica interna e soprattutto estera (con la guerra in Iraq) di George W. Bush.



Detto questo, nulla toglie alla sentita e profonda esigenza, un’autentica ondata, del popolo americano per una rottura con l’amministrazione in carica. È indubbiamente vero che il tracollo del Partito Repubblicano e della chances di John McCain si possono vedere persino sulla carta geografica degli Stati Uniti: l’Ohio perduto sembra una cartina di tornasole, perché è lì che il meccanismo infernale dei mutui subprime ha letteralmente stroncato la nuova frontiera dell’american dream, quello di possedere una casa.

La causa prima quindi della grande vittoria del Partito Democratico sta proprio in questa caduta, in questo tonfo del prestigio economico-finanziario degli Stati Uniti, che ha spinto al cambiamento fino all’interno della Casa Bianca anche con un colored, accettato persino in Stati tradizionalisti come Pennsylvania e Virginia.

Tuttavia è anche possibile che questa ondata di protesta sia stata cavalcata e in parte guidata per un’operazione di restilyng in grande stile, ma solo nell’immagine del nuovo inquilino della Casa Bianca. E lì si fermi. Qui c’è la possibilità di un pericolo, che comunque trattandosi di una grande nazione democratica come l’America, è alla fine solo relativo. Vale tuttavia la pena di esaminarlo.

Dietro alla grande protesta per il tracollo finanziario e ai lutti della guerra irachena, il grande establishment wasp, democratico e in parte repubblicano, può aver giocato, e in parte diretto, l’azzardo di un Presidente meticcio per modificare parzialmente la politica interna e continuare in altre forme la stessa politica estera, quella di “Bush senza Bush”, senza cioè un presidente caduto rovinosamente nei sondaggi, forse oltre le sue stesse e molteplici colpe.

È questo l’interrogativo che si pone oggi, di fronte all’uomo che ha più potere nel mondo. In altri termini, è positivamente sbalorditivo che Obama abbia vinto le elezioni, ma ci si può legittimamente interrogare se la rivoluzione che lo stesso Obama rappresenta non sia allo stesso tempo un suo limite nell’azione di governo del Paese più potente del mondo.

In politica interna, il colored della Casa Bianca può certamente far intervenire lo Stato nell’economia in una riedizione di politica keynesiana o se si preferisce di new deal roosveltiano. Nel suo grande spot elettorale, Obama ha insistito su questo punto con la parola d’ordine “Investiamo in questo Paese”.

Ma accettato questo concetto, è possibile che lo stesso Obama possa modificare il bancocentrismo, la grande tecnocrazia finanziaria di Wall Street che ha contrassegnato la politica economica americana ancora prima di Bush? Siamo sicuri che i funamboli della finanza sintetica, che operano da oltre venti anni, lascino il passo alla politica sociale del nuovo Presidente senza contropartite?

È un quesito che si pone anche sulla base della impressionante vastità di mezzi che Obama ha potuto usare in questa campagna elettorale: oltre seicento milioni di dollari. Un record assoluto.

Poi c’è la politica estera, con un mondo globalizzato e neppure riconducibile a una dinamica multilaterale. Sono tanti i soggetti internazionali emergenti da tenere a bada o in dovuta considerazione, dal nuovo “Impero di mezzo” cinese, all’India, alla Russia putiniana, ad alcuni paesi sudamericani, alla stessa Europa e alla ribollente realtà del Medio Oriente, con un intreccio tra royalties del petrolio, questioni territoriali aperte, fondamentalismo islamico e terrorismo.

Come si potrà muovere il nuovo Presidente di fronte a questo quadro frastagliato, sapendo che dovrà risolvere il problema energetico del suo grande Paese e lo sbilancio finanziario con l’Oriente?

L’establishment wasp si è sovente diviso da Bush sui mezzi, non sui fini. Spesso quel confine è molto sottile e per Obama non sarà facile districarsi in questa complessa realtà.

Il problema quindi per gli europei, sarà innanzitutto pensare a un Obama che è prima di tutto un americano e che quindi sfugge alle regole ideologiche del destra-sinistra tipiche del vecchio continente.

Tanto per intenderci, Obama può chiudere Guantanamo, ma di certo non muta il suo atteggiamento sulla pena di morte. Obama può avvalersi di molti generali come David Petraeus, ma non può certo ammainare bandiera contro il terrorismo o abbandonare l’area strategica dell’Iraq, dell’Afghanistan, senza guardare con preoccupazione alla politica dell’Iran.

A questo punto, il primo atteggiamento saggio degli europei dovrebbe essere quello di considerare nella sua concretezza e nella realtà il nuovo Presidente americano, non costruendo un immaginario Obama. A quello già ci pensano al Greenwich Village di New York e Hollywood.

Forse, proprio rispettando l’Obama reale, l’Europa può aiutare il nuovo Presidente in modo determinante. Al contrario, facendone una sorta di icona redentrice di un’America peccatrice e modernamente selvaggia, si aiuterebbero indirettamente i consiglieri di Obama, il suo staff, tutto bianco e tutto wasp, che lo hanno aiutato a vincere, ma che in cambio potrebbero pesare persino sulle sue scelte, rinfacciandogli al limite di aver vinto (per merito loro) nonostante il colore della sua pelle.