La magistratura è nell’occhio del ciclone. Lo è, beninteso, più nell’immagine pubblica che essa dà di sé medesima, che non nella realtà. Ma a fronte di moltissimi magistrati che fanno bene e con impegno il loro quotidiano lavoro, alcuni assumono comportamenti che sembrano pensati apposta per gettare discredito sull’intero ordine giudiziario. L’appello all’Onu inviato dai vertici dell’Associazione nazionale magistrati, come se l’Italia fosse un paese in emergenza democratica, ha finito per ridicolizzare l’Associazione sulle prime pagine dei più importanti quotidiani. L’assurda e clamorosa guerra sul caso De Magistris tra i pubblici ministeri calabresi e campani, che si iscrivono vicendevolmente sul registro degli indagati, disorienta l’opinione pubblica e suggerisce l’idea che tra quelle Procure sia in atto una guerra per bande. Il Capo dello Stato chiede gli atti delle indagini affermando che si tratta di un caso senza precedenti, come senza precedenti appare il suo intervento, stante la gravità della vicenda.
In questo clima, ragionare pacatamente di riforme dell’ordine giudiziario appare difficile. Eppure il tema è sempre all’ordine del giorno, e bisognerebbe trovare la pazienza e la determinazione per affrontarlo non sotto la spinta delle continue emergenze, ma con coraggio e visione del futuro.
Una delle più delicate questioni sul tappeto riguarda la riforma del Consiglio superiore della magistratura. Tema “divisivo” quant’altri mai, anche perché il Partito democratico ha di recente avuto modo di schierarsi contro qualunque modifica costituzionale del titolo IV, parte II, della Costituzione.
Eppure le spinte per un intervento di rango costituzionale sull’organo di governo autonomo della magistratura sono forti, e ben motivate.
La separazione delle carriere. Due Consigli superiori?
Si può ad esempio ritenere – come reclamano da tempo gli avvocati penalisti – che la piena realizzazione dell’affermazione costituzionale del giusto processo di fronte al giudice imparziale e terzo (articolo 111 della Costituzione) richieda interventi costituzionali che coinvolgano la stessa struttura del Csm: non sembra infatti possibile realizzare una vera separazione delle carriere senza spezzare l’unicità dell’organo cui è attribuito il compito di amministrare la carriera di giudici e pm.
D’altra parte, è da chiedersi se sarebbe davvero opportuno avere due Consigli superiori anziché uno solo. Non solo perché non è bene moltiplicare gli organi costituzionali o di rilievo costituzionale, ma anche perché non si saprebbe dire come potrebbe evolvere, nella prassi costituzionale, un Csm dei pubblici ministeri lasciato a sé stesso. Il problema non sembra tanto consistere nel fatto che i pubblici ministeri finiscano per trovarsi sotto l’orbita del potere esecutivo: ha piuttosto un che d’inquietante l’idea di trovarci fra qualche anno con una potente “procuratura” che gestisce (non solo la carriera burocratica, ma anche) la forza “istituzionale” dei titolari del potere d’accusa. Nel Paese delle supplenze e della debolezza della politica, questa parrebbe proprio l’ultima delle innovazioni di cui abbiamo bisogno.
Per questo, parrebbe più opportuno immaginare un Csm unico, presieduto sempre dal Presidente della Repubblica, ma distinto in due sezioni separate, una per i giudici e una per i pm. E questa architettura costituzionale potrebbe “coprire” scelte legislative ordinarie anche radicali, che introducano, nello stesso costume giudiziario del nostro Paese, forme reali di separazione delle carriere.
Quanto a ruolo complessivo e a composizione del Csm, è opinione abbastanza diffusa che tale organo si sia appropriato, in questi decenni, di una serie di funzioni che la Costituzione e la legge non gli attribuiscono. Per la verità, tra i costituzionalisti è frequente l’affermazione – giustificazionista – secondo cui il Csm, quale organo di rilievo costituzionale, può legittimamente svolgere compiti e funzioni non strettamente disciplinati sul piano positivo, purché servano a garantire autonomia e indipendenza della magistratura.. Vi è addirittura chi si spinge a sostenere che il Csm avrebbe assunto veri e propri compiti di indirizzo politico-costituzionale della magistratura.
La realtà è che dietro al riparo della cd. “tutela dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura”, il Csm ha, da una parte, accentuato il proprio ruolo “corporativo” di rappresentanza e di tutela ad oltranza dei componenti della magistratura ordinaria, finendo per realizzare un modello di sostanziale “autogoverno”, che però non è il modello costituzionale, come la stessa Corte costituzionale ebbe a sottolineare fin dalla sentenza n. 142 del 1973. Dall’altra parte, il Csm assume talvolta improprie funzioni di indirizzo oppositivo, anche in un cercato e consapevole contrasto con gli organi politici, come mettono in evidenza le note vicende relative all’espressione di pareri (anche se non richiesti dal Ministro) su iniziative parlamentari in corso.
Secondo un’opinione, ciò dipenderebbe dalla circostanza che nella composizione del Csm i membri provenienti dalla magistratura (“togati”) abbiano la maggioranza, ciò che tra l’altro enfatizza, dentro al Csm, il ruolo e la forza pervasiva delle correnti in cui si divide l’Associazione nazionale magistrati. Anzi, proprio il ruolo delle correnti e la loro decisiva influenza nell’elezione dei componenti pone la questione di un Csm che di fatto ribalta all’interno dell’organizzazione istituzionale logiche di schieramento, spesso collaterali ad istanze partitiche.
La questione del ruolo del Presidente della Repubblica
La soluzione riformatrice che si ode proporre in questi mesi corre lungo due direttrici: ferma restando la distinzione in due sezioni, una per i magistrati giudicanti, una per i pubblici ministeri, e fermo restando che per ognuna delle due sezioni la componente giudiziaria è rappresentata per “categorie” (i giudici eleggono giudici nella loro sezione; i pubblici ministeri eleggono pubblici ministeri nella loro), una delle proposte consiste nel rovesciare le percentuali attualmente previste, dando così la maggioranza ai membri “laici”; altri preferirebbero consentire che un terzo dei componenti sia nominato dal Presidente della Repubblica (oltre a un terzo di derivazione giudiziaria e a un terzo di elezione parlamentare), raggiungendosi anche così il risultato di lasciare i membri “togati” in minoranza (in ciascuna delle due sezioni).
Può darsi che siano soluzioni opportune. Noto peraltro che la seconda di esse pone in particolare la questione del ruolo del Presidente della Repubblica, perché solleva qualche interrogativo immaginare che colui che resterebbe Presidente dell’unico Csm (diviso in due sezioni) possa contemporaneamente scegliere un terzo dei membri dell’organo, costruendosi così un “gruppo interno” di suoi sostenitori. Questione che (forse) potrebbe essere superata se si considera che quella del Presidente nei confronti del Csm è una presidenza “alta” e non quotidiana, di “garanzia” e non di gestione, sicché meno potrebbe disturbare la presenza di componenti nominati dallo stesso Capo dello Stato.
Più in generale, bisogna guardarsi dal rischio di ottenere il risultato paradossale di rendere ancor più “politico” il Consiglio, con robuste immissioni di componenti legati alla politica partitica. È innegabile che, senza cautele adeguate, l’elezione parlamentare di due terzi dei componenti potrebbe avere questo inconveniente. E, ammesso comunque un ruolo preponderante del Parlamento in seduta comune nella selezione dei componenti, bisognerebbe trovare sistemi che rendano realmente di alto profilo i requisiti dei tecnici (non necessariamente solo professori di diritto e avvocati) da eleggere.
Perché riformare il Csm servirebbe davvero a migliorare la giustizia
Un’ultima osservazione sulla composizione del Csm. Molti contestano l’opportunità di un intervento sul punto, ritenendo che esso non contribuisca per nulla a migliorare l’efficienza della giustizia (nel senso degli interventi indicati più sopra), e ribadiscono che anziché “stravolgere” la Costituzione in tema di assetto del Csm è necessario fare tutt’altro, e in particolare operare riforme per garantire la ragionevole durata dei processi.
Questa considerazione è un po’ un luogo comune. Essa rischia di urtare contro la verità dei fatti, come si può dimostrare sulla base di un esempio relativo alla nomina agli uffici direttivi, cioè alle cariche apicali negli uffici giudiziari (Presidenti dei Tribunali, delle Corti, Capi delle procure). Come è noto, tale nomina spetta al Csm, con il concerto del Ministro. In diverse circostanze è accaduto che i veti incrociati tra le correnti dell’Anm rappresentate in Csm abbiano determinato gravissimi ritardi nella nomina a questi uffici. Addirittura, nel 2006, l’allora Capo dello Stato fu costretto a scrivere una lettera al Csm, lamentando questi ritardi, in certi casi giunti fino a due anni.
Ebbene, i ritardi nelle nomine hanno certamente a che fare con la funzionalità e l’efficienza del sistema giustizia, potendo determinare una sostanziale paralisi nel funzionamento degli uffici giudiziari. Ecco perché, al di là di ogni altra considerazione, incidere sulla composizione del Csm è questione niente affatto estranea al funzionamento e all’efficienza della giustizia.
Ragionamenti non diversi potrebbero essere condotti sulle valutazioni di professionalità dei magistrati: un Csm diviso per correnti di magistrati non è esattamente l’organo dal quale ci si attende le più oggettive valutazioni e le migliori decisioni circa gli avanzamenti in carriera. Per non parlare della giurisdizione disciplinare, spesso considerata non incisiva come dovrebbe ma invece troppo “perdonista”, proprio perché amministrata, in sostanza, dagli eletti nei confronti dei loro elettori, talvolta anche sulla base di considerazioni “correntizie”: situazione che giustifica le ricorrenti proposte di scorporare la funzione disciplinare dal Csm qual esso attualmente è, per affidarla a un organo diverso, realmente “terzo”.