Federalismo e Giustizia sembrano contrapporre Bossi a Berlusconi. Il leader della Lega teme infatti che una radicalizzazione possa complicare l’iter della “sua” legge su federalismo fiscale e poi istituzionale e vorrebbe darle priorità. D’altra parte i tempi di approvazione tendono a non essere rapidi e l’opposizione punta infatti a farsi scudo della Lega per rinviare gli interventi più cari a Berlusconi. Non è un contenzioso che nasce da un occasionale ingorgo istituzionale.
L’unificazione tra Forza Italia e Alleanza Nazionale con la contemporanea scomparsa del partito di Casini dal cartello della coalizione, non poteva non determinare un rapporto nuovo e di maggior caratterizzazione (ovvero di competizione ed anche di conflittualità) della Lega rispetto al nuovo soggetto politico rappresentato dal Pdl.
Finché la coalizione di centro-destra era articolata in quattro partiti ben distinti, la dialettica interna – come è sempre più emerso nella legislatura in cui aveva governato tra il 2001 ed il 2006 – vedeva un’irrequietezza da un lato di Casini e dall’altro di Fini, entrambi autocandidatisi alla successione di Berlusconi. Stando uno in una posizione istituzionale e l’altro a lungo in una vicepresidenza senza incarico ne approfittavano per un presa di distanza da Forza Italia. Con una maggioranza quindi sempre più dal passo pesante e incerto lo spazio della Lega fu quello dell’alleato più fedele che sosteneva Berlusconi nel proposito di un’attuazione piena delle promesse elettorali – a cominciare da sicurezza e immigrazione – contro l’azione frenante e destabilizzante (fino a provocare la crisi di governo) svolta da alleati che tra “vertici”, “verifiche” e “rimpasti” rispecchiavano – a suo dire – la vecchia partitocrazia soprattutto ex democristiana.
Berlusconi di fronte alle elezioni anticipate di quest’anno ha compreso che era improponibile la riedizione di una coalizione-cartello, infida e già stanca in partenza, e ha promosso una semplificazione-epurazione. Oggi è il leader di una coalizione e, all’interno di essa, di un partito-movimento sostanzialmente omogeneo e controllato. Con Fini che a Montecitorio si sottopone ad accorto riciclaggio da statista e leader “centrista” non più di una componente “estrema”, il Pdl ha una visibilità di forza non travagliata da dissidi. Al contrario il peso della sua direzione è acquisito sempre più da un “direttorio” composto dai quattro presidenti e vicepresidenti dei gruppi parlamentari di Camera e Senato che – come si è visto nel caso Villari per la commissione di vigilanza Rai – sono in grado di imporre una tabella di marcia battagliera: si atteggiano a guida operativa di una attuazione del programma nel modo più pieno e determinato senza compromessi né troppo dialogo con l’opposizione. A questo punto qual è lo spazio della Lega “dura e pura”?
Il partito-movimento di Bossi – che è pure attraversato da sindrome di “successione” allo stesso Bossi oltre che a Berlusconi – cerca spazio in una forte caratterizzazione di stampo nuovo.
Non avendo più un alleato da scavalcare nella fedeltà a Berlusconi allora ne prende le distanze. Ma in che direzione? Sui temi della sicurezza e del controllo dell’immigrazione clandestina non ha nessun bersaglio da attaccare come frenante all’interno del governo. D’altra parte nel campo dell’opposizione il tentativo di Walter Veltroni di dar vita ad un nuovo clima di reciproca legittimazione e svelenimento attraverso “vocazione maggioritaria” e “governo ombra” è a dir poco rimasto a terra.
Siamo ancora, da parte del centro-sinistra, alla demonizzazione – “caudillo”, “conflitto d’interessi”, “piano Gelli-P2”, ecc. – e quindi, specularmente, da parte di Berlusconi, alla contestazione di un post-comunismo che non ha mai rotto con la tradizione comunista contrapponendo sempre la “piazza” all’esecutivo come “paese reale” contro “paese legale”, “democrazia sostanziale” contro “democrazia formale”.
La scelta di Bossi è quindi naturale e prevedibile: ricercare un tema più specifico rispetto a sicurezza, immigrati, sgravi fiscali e attacco all’amministrazione burocratico-parassitaria romanocentrica che sono fronti ormai ben presidiati dal “direttorio” e da ministri economici da Sacconi e Brunetta. Che cosa rimane? Quel che Bossi aveva imparato dal valdostano Bruno Salvadori nella sua prima esperienza di lista europea dei vari movimenti locali e che poi gli aveva meglio spiegato il prof. Miglio: il federalismo. Inoltre, a livello parlamentare, la maggior visibilità è offerta dall’atteggiarsi non più a “falco”, ma a “colomba”. A ciò si aggiunge la pressione dei vari “colonnelli” leghisti affetti dal virus del “dopo Berlusconi” che pensano a un futuro autonomo credendo possibile che la Lega possa divenire un futuro “ago della bilancia” della vita nazionale.
In sostanza – per l’immeditato – l’opzione è: federalismo e dialogo. Una linea realistica in quanto il federalismo “asso-piglia-tutto” della Lega è abbastanza camaleontico: non è un disegno organico, compatto e, soprattutto, chiaro. Basti pensare alle Province che da entità matrigna è divenuta poi benigna e, addirittura, intoccabile mentre sin dall’istituzione delle Regioni erano considerate dai costituzionalisti un surplus, appunto, burocratico-parassitario. Ma è lì che nella lottizzazione del centro-destra c’è maggior potere di partito e di sottogoverno per la Lega.
E’ così iniziata una nuova stagione della Lega incentrata sul venir fuori da questa legislatura con una vittoria “tutta sua” che le può essere riconosciuta solo con una legge “ad hoc” sul tema del federalismo. Un provvedimento che dai contenuti flessibili per essere brandito come vittoria rilevante deve essere non una legge ordinaria, ma avere una qualche aureola e quindi un minimo di rilevanza costituzionale. Con una maggioranza poco convinta circa la reale utilità e in un quadro di scontro frontale, la Lega è quindi sempre più il “partito del dialogo”. Il federalismo richiede infatti un quadro di iter che non sia un percorso di guerra tra trappole e imboscate.
Ma mentre la Lega è convinta di essere determinante e molto furba essa ha un cammino non semplice che è rappresentato da ostacoli che vengono dalla logica politica e dagli imprevisti di rilevanza nazionale.
Sul piano parlamentare il Pd – tra “questione morale” e stato prescissionistico (anche se consensuale) – non è in condizione di concludere alcun accordo con Berlusconi-Belzebù da qui alle elezioni europee.
Sul piano programmatico questo federalismo, in particolare nella dimensione fiscale, c’entra sempre più come “i cavoli a merenda” con lo stato nazionale dell’economia e della finanza in questo momento non solo di crisi, ma in cui tutti i conti dei prossimi mesi sono del tutto incerti e nessuno è in grado di prevedere l’entità del “buco” da affrontare. Il principale alleato di Bossi è Tremonti e pertanto l’agognato federalismo è sul filo del rasoio. Il ministro dell’Economia ha affiancato Bossi nei contatti con l’opposizione e se si vuole un’intesa occorre che la Lega però accetti la metodologia della sinistra: approvazione di massima a gennaio in Senato e poi via libera ad una commissione per scrivere i decreti attuativi. E quindi Bossi ha dovuto cedere rinunciando al no pregiudiziale ad una ipotesi addirittura di commissione bicamerale. In questo modo i tempi si allungano e l’opposizione spera di poter usare il federalismo per spingere Bossi a sua volta ad una politica del rinvio nei confronti del premier. In sostanza: se Bossi vuole il “suo” federalismo deve darsi da fare per evitare che il governo porti avanti provvedimenti che possano provocare uno scontro frontale.
Che la Lega ritenga di essere l’”ombelico del mondo” è verosimile ed è anche legittimo che Bossi e i suoi “colonnelli” pensino di poter essere protagonisti di una grande mediazione, ma la realtà è che la Lega già a livello di assemblea parlamentare è vissuta e additata dall’opposizione (dal centro-sinistra e dalla sinistra antagonista che è la sua “curva sud”) come l’elemento più retrogrado e reazionario. Persino per uno dei più pacati – per tono e idee – commentatori di sinistra come Antonio Polito il governo Berlusconi ha la pecca di essere “il governo del Nord”. Le sue proposte di dialogo o mediazione sulla giustizia comprendono idee non solo come la separazione delle carriere, ma l’elezione popolare di magistrati a cui persino un Luciano Violante sempre più moderato (per rimuovere il veto alla sua elezione a giudice della Corte Costituzionale) non è in grado di far da sponda.
La linea che quindi persegue la Lega – il federalismo in un quadro di intesa bipartisan – è l’unica scelta per Bossi possibile, ma non è detto che sia praticabile. Né vi sono margini per “strappi”. Come militanti i leghisti sono un’entità che segue come un sol uomo Bossi, ma come elettorato i voti sono quelli di un “popolo” di centro-destra che vuole una linea più dura, non più dialogante e segue il federalismo in quanto pensa che porterà meno tasse e meno burocrazia. Ciò di cui gli ambasciatori di Bossi stanno discutendo con esponenti dell’opposizione non va esattamente in quella direzione.
L’opposizione conta quindi di poter realisticamente riportare una vittoria prima delle elezioni europee: l’archiviazione o del federalismo o della giustizia oppure l’annacquamento dei propositi originari di Berlusconi e Bossi in entrambi i provvedimenti.