Pietro Ichino ha fornito un’ulteriore prova del suo “ottimismo della volontà”. La sua idea – sintetizzata nella formula “un contratto per la transizione” – nasce dal riordino di alcune proposte che circolano da tempo nel dibattito, dal momento che i problemi da risolvere sono sempre gli stessi da anni. In sintesi, Ichino propone di affrontare la crisi e gli effetti che si determineranno sull’occupazione, cogliendo l’occasione per avviare un processo di flexecurity all’italiana.
Le nuove assunzioni avverrebbero attraverso un’unica tipologia contrattuale a “tutela progressiva” per quanto riguarda la risoluzione del rapporto di lavoro, nel senso che la disciplina di cui all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori sarebbe modulata ed applicabile ai soli licenziamenti discriminatori e dopo un certo numero di anni di lavoro. Nel frattempo, le parti dovrebbero costituire un ente bilaterale con il compito di ricollocare nel mercato del lavoro le persone licenziate.
La proposta – anche se non affronta il nodo vero della riforma dell’articolo 18 – è sicuramente utile e condivisibile. Essa prende le mosse da una constatazione ovvia: nessuna impresa sarebbe disposta ad assumere a tempo indeterminato (in un contesto di regole ingessate come quelle vigenti) in una situazione di grave incertezza dell’economia. Si tratta poi della medesima constatazione che alla fine degli anni Novanta indusse i governi (italiani ed europei) ad introdurre misure di flessibilità in entrata (allo scopo di garantirle anche in uscita). Queste scelte (dal “pacchetto Treu” alla legge Biagi) servirono ad aumentare il tasso di occupazione (almeno per 8-9 anni di seguito), ma produssero anche quel “dualismo” del mercato del lavoro, con un forte impatto generazionale, che viene denunciato con qualche esagerazione, ma che presenta aspetti inconfutabili, in quanto tutta la flessibilità di cui ha bisogno il sistema ha finito per essere scaricata sui nuovi occupati e quindi sui giovani.
Se l’abbiamo ben compresa, la proposta di Pietro Ichino non supera questo “dualismo”, in quanto il contratto unico a tutela progressiva sarebbe applicato solo ai nuovi occupati (per quelli già inseriti resterebbero le regole vigenti). Vi sarebbe comunque il vantaggio derivante da un solo modello contrattuale per le nuove assunzioni. Interessante, poi, è l’idea di avvalersi di un ente bilaterale in qualità di servizio per l’impiego. La proposta ha raccolto reazioni di diverso tipo. A fronte di una linea attendista del Governo e della maggioranza, più propensa ad individuare strumenti e risorse sul versante degli ammortizzatori sociali, nel centro sinistra si è aperto il solito dibattito tra chi vorrebbe ma non può e chi potrebbe ma non vuole.
Se dovessi fare una previsione, Ichino non riuscirà a portare il “mondo della gauche” sulle sue posizioni (nonostante i pareri favorevoli che pur sono venuti). La miscela decisionale del blocco Pd-sindacati non è in grado di produrre e sostenere soluzioni innovative. Ichino, però, non deve rinunciare. Il modello da seguire anche in questa occasione dovrebbe essere quello già sperimentato nel pubblico impiego. Anni or sono è stato il professor Ichino a tirare il sasso nella piccionaia dei “fannulloni”. Ma c’è voluto un ministro come Renato Brunetta perché le proposte di Ichino trovassero audience in Parlamento. Il senatore Ichino, dunque, ha una sola speranza: che le sue idee siano assunte e portate avanti dal Governo. Prima o poi, il senatore si accorgerà di essere uno straniero in patria.