Il sì di Veltroni al “coordinamento del Nord” è il segno di una volontà di ripresa e di iniziativa dopo giornate che il segretario del Pd sembra aver passato sulla difensiva in seguito al caso Rai fino alla bellicosa rentrèe di D’Alema. Ma sarebbe sbagliato interpretarlo solo alla luce dei contrasti interni di partito, anche se hanno il loro peso.
Alla base della decisione non c’è infatti il mero desiderio di compiacere richieste di visibilità di leader locali, ma la necessità di affrontare le prossime scadenze elettorali – amministrative e parlamentari europeee – proponendo in modo diverso il Pd.
Due sono i fattori che hanno determinato l’apertura di Veltroni: da un lato la crisi economica che scuote in primo luogo le “capitali” economico-finanziarie italiane e la rete dei “distretti” produttivi della piccola-media imprenditorialità dal Piemonte al Veneto, e dall’altro quello che è stato definito il “gelo” tra Napolitano e Bassolino in occasione della recente visita a Napoli del capo dello Stato.
Il Pd che è uscito dalle urne delle elezioni politiche del 2008 – non per volontà dei dirigenti, ma del corpo elettorale – è un conglomerato radicato e distribuito prevalentemente nel centro-sud. La rappresentanza parlamentare al Nord è ai minimi storici per la sinistra. È evidente che l’intero onere delle armi è trasferito in sostanza sui leaders delle amministrazioni locali che vivono peraltro in stato di assedio.
L’aprirsi dei contrasti interni e il comportamento parlamentare hanno determinato in quanti sono impegnati nel “fronte del Nord” la sensazione di essere abbandonati, mentre il Pd si identifica con Fiumicino e con Napoli di fronte a un Berlusconi che, a sua volta, sentendosi sicuro al Nord va all’attacco delle posizioni di maggior potere del Pd al centro-Sud. Un Pd del centro-sud che sempre più rivela crepe a cominciare appunto da Napoli che originariamente rappresentava il modello del “nuovo modo” di governare Pci-Pds-Ds-Pd.
L’apertura del “secondo fronte” da parte di Veltroni rispecchia quindi un desiderio di non rassegnarsi alla duplice sconfitta (del partito e nel partito) e inoltre offre al Pd il dischiudersi di una qualche nuova prospettiva politica nazionale destabilizzando – come insiste Chiamparino – la stessa collocazione della Lega che in vista del federalismo fiscale continua a mandare messaggi finora inascoltati al Pd.
Si tratta ora di vedere forme e contenuti. Certamente le forme non possono che essere prudenti data la levata di scudi che va da D’Alema a Cofferati. Ma l’inizio di un cammino dovrebbe essere ormai un dato di fatto.
Quali i prossimi passi sul piano dei contenuti? La definizione di una piattaforma di contrattacco al Nord significa far propri non in termini difensivi i temi del rafforzamento dell’economia mettendo in sostanza alle spalle una lettura classista – da materialismo storico – della crisi economica. Ma il sindacato – e soprattutto la Cgil “del Nord” – è in grado di farlo? Di seguire e, anzi, concretizzare e rafforzare questa risposta? Lo “zapping” televisivo di queste settimane ci offre molti “volti storici” della sinistra quasi rallegrarsi per quel che considerano una salutare crisi catastrofica del capitalismo.
Che ne sarà – quindi – dei rapporti con la sinistra antagonista? Da Chiamparino a Cacciari e Penati il Pd può contare su una leadership sicuramente “a vocazione maggioritaria”, ma la scelta del “coordinamento del Nord” – anche se non è un “Pd del Nord” – ha senso se si traduce in una identità molto concreta. Al “nessun nemico a sinistra” bisogna sostituire a livello nazionale il “nessun equivoco a sinistra”. Per poterlo fare al Nord è necessaria una volontà nazionale di introdurre alcuni correttivi di rotta nuovi e sostanziali.
Torniamo quindi ai nodi interni di partito che sono da sciogliere. Il contrasto tra Veltroni e D’Alema non è un “dejà vu” di rivalità personali. Siamo di fronte a due punti di vista molto fondati. Hanno ragione entrambi: Veltroni ha ragione nel rifiutare le critiche alla sconfitta elettorale che era scontata e anzi grazie a lui – al Pd “a vocazione maggioritaria” e al “voto utile” – ha contenuto la sconfitta e ha dato una prospettiva di rivincita. Da parte sua D’Alema ha ragione nel sostenere che non è realistico pensare che solo in Italia non debba esistere un partito legato agli altri partiti socialisti europei e che Veltroni ammanettandosi con Di Pietro finisce nelle mani di Berlusconi. L’Italia dei Valori è infatti una sorta di Lega. Di Pietro è in sostanza identico – per linguaggio, contenuti e proposte programmatiche – al Bossi antiberlusconiano del 1995-1996.
La strada del “coordinamento del Nord” è più in generale quella del “partito di governo” non più tutto emarginati-piloti-rettori. Implica quindi che a livello nazionale Veltroni sia in grado di rilanciare e far funzionare il “governo ombra” mettendo da parte la demonizzazione di Berlusconi e dando vita ad una dialettica parlamentare rivolta a migliorare in modo determinante agli occhi del Paese le leggi più importanti e a concordare con la maggioranza il varo delle necessarie riforme istituzionali.
Non si tratta di una strada minimalista. L’alternativa è quella di rimanere immobile con Di Pietro e non modificare la legge elettorale andando così incontro a una sicura sconfitta e al fallimento del Pd. Sarà in grado infatti il Pd di reggere una bruciante sconfitta alle europee? L’ipotesi di una separazione consensuale dando vita da un lato ad un partito legato al Pse e dall’altro ad un partito di ex democristiani con Casini sarebbe a quel punto una soluzione inevitabile.