Separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, riforma del Csm, disciplina legale dei criteri di esercizio dell’azione penale. Tre riforme strutturali della giustizia legate dal medesimo filo rosso: si tratta di aumentare fortemente il tasso di autonomia e indipendenza dei magistrati nel segno del principio di legalità. Poiché gli oppositori di queste riforme, con in testa l’Associazione Nazionale Magistrati, ne danno un’interpretazione contraria sostenendo che esse comprometterebbero le guarentigie dell’autonomia e dell’indipendenza, è più che utile qualche puntualizzazione.
La separazione delle carriere ha come obiettivo la rottura dell’unitarietà dell’«autorità giudiziaria» quale funzione statale di cui l’accusare e il decidere siano due sotto-funzioni. Infatti da questa concezione, che ancora ispira l’attuale ordinamento giudiziario, derivano conseguenze contrarie ai principi democratico-liberali. Pubblico ministero e giudice sono investiti di funzioni intese a obbedire a una medesima finalità: realizzare la persecuzione penale statale, così che anche il giudice deve farsi carico delle esigenze di adempimento di tale funzione. Il risultato è che la funzione di controllo giurisdizionale sull’accusa ne esce molto sminuita. Interi settori normativi del codice di procedura penale (si pensi, come esempio, alla disciplina dei termini massimi delle indagini preliminari e delle loro proroghe) sono basati sul controllo del giudice sull’operato del pubblico ministero. È prassi ormai generalizzata che un simile controllo giurisdizionale non è esercitato (le richieste di proroga delle indagini del pubblico ministero sono accolte con formule di solo stile) e la conseguenza prima è che il procedimento subisce tempi sempre più dilatati, con grave danno per la sua efficienza.
La riforma del Csm deve operare su più fronti. Si tratta di prevedere due Csm, rispettivamente per i giudici e per i pubblici ministeri, in corrispondenza con la separazione delle carriere. Si tratta poi di strutturare la loro composizione in modo che i laici siano una quota di maggioranza rispetto ai togati. Ciò è necessario per rompere la gestione del Csm secondo i poteri delle «correnti», che agiscono condizionando pesantemente i singoli magistrati. Al riguardo si deve insistere su una riflessione fondamentale: le guarentigie costituzionali dell’autonomia e dell’indipendenza sono proprie dei singoli magistrati e non di un corpo di magistratura che le amministri con un organo erroneamente definito di «autogoverno», operante secondo logiche di potere interno.
L’esercizio dell’azione penale è oggi consegnato a un regime di discrezionalità libera, cioè di arbitrio, gestito dalle singole Procure secondo propri criteri, a volte dichiarati ma per lo più inespressi. Ciò significa, né più né meno, l’abolizione del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. Se, infatti, la scelta di come destinare le limitate risorse giudiziarie di persecuzione penale è affidata alle singole Procure secondo propri criteri di selezione fra le notizie di reato da perseguire e quelle da pretermettere, il principio di obbligatorietà è infranto. Questo principio, nel suo autentico significato, comporta criteri di legalità di esercizio dell’azione penale, cioè criteri stabiliti dalla legge. Il che è quanto una nuova disciplina si deve incaricare di elaborare. Una simile riforma determina perciò non un’impropria ingerenza della politica nell’attività dei magistrati, ma, al contrario, la riconduzione di questa alla legalità e l’esclusione di scelte politiche che non competono alle Procure.