«Hamas? È lecito pensare che aspiri ad un risultato politico come quello che Hezbollah ha ottenuto nel 2006 in occasione della campagna israeliana. Il rischio vero è che Israele – cui tutti riconosciamo il diritto di difendersi – volendo farla finita con Hamas, quindi facendo un’operazione terrestre, rischi anch’esso un esito simile a quello del Libano due anni fa». Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni internazionali nell’Università Cattolica di Milano, spiega i fattori di uno scenario drammatico, in divenire continuo, che non dà tregua alle martoriate popolazioni della Terra Santa. È di poche ore fa la notizia che mentre Israele continua l’attacco su Gaza per colpire Hamas, il vertice Ue convocato dal presidente francese Sarkozy ha chiesto al governo israeliano un cessate il fuoco per consentire aiuti umanitari. Ehud Barak, ministro della difesa israeliano, si è detto «favorevole» a una proposta di tregua di 48 ore. Nella giornata di ieri, invece, Israele aveva detto che le operazioni sarebbero andate avanti fino alla distruzione di Hamas.
Israele ha detto che andrà avanti fino alla caduta di Hamas. Le ultime vicende hanno colpito per una fondamentale ambiguità: da un lato la legittima autodifesa di Israele, che in molti hanno considerato “sproporzionata” per la sua intensità, e dall’altra l’incauta mossa di Hamas, che sapeva benissimo di incorrere nella reazione immediata dello Stato ebraico.
Hamas era in difficoltà rispetto al mantenimento di una tregua divenuta sempre meno sostenibile, sia per la situazione creatasi nella Striscia di Gaza sia dal punto di vista politico per lo stesso Hamas. Di conseguenza è legittimo pensare che abbia puntato sulla provocazione dura nei confronti di Israele, auspicando una reazione che, nell’ipotesi più ottimistica, in qualche modo ricompattasse le fila del movimento. E che nell’ipotesi più pessimistica seguisse una logica del “tanto peggio tanto meglio”; pensando, e non è da escludere, di portare a casa un risultato politico come quello che Hezbollah ha ottenuto nel 2006 in occasione della campagna israeliana.
Un’operazione sulla falsariga di quella di Hezbollah, mettendo in conto l’eventualità del suo successo, dunque.
Ho l’impressione di sì. Il rischio vero è che Israele – cui tutti riconosciamo il diritto di difendersi utilizzando gli strumenti che ritiene opportuni – volendo farla finita con Hamas, quindi facendo un’operazione terrestre, rischi anch’esso un esito simile a quello del Libano due anni fa. Che, non dimentichiamolo, per Israele fu un disastro.
Per Israele esistono alternative?
È ovvio che Israele non può fermarsi in questo momento: che risultato avrebbe? A mio avviso, però, pensare di “decapitare” militarmente e quindi politicamente Hamas è irrealistico.
Perché?
La campagna libanese del 2006 ha mostrato come anche nel corso delle operazioni israeliane Hezbollah sia riuscita a lanciare missili sulla Galilea, e temo che Hamas riesca a fare altrettanto fino a che le operazioni continueranno. Ecco perché Israele “deve”, dal suo punto di vista, chiudere le operazioni il più rapidamente possibile, intanto che Hamas è ancora politicamente isolata.
Quali sono gli interlocutori politici credibili nell’area e che cosa possono fare?
La volontà sia di Abu Mazen che dell’Egitto di isolare Hamas e di prendere in qualche modo il controllo su Gaza è evidente. L’Egitto è preoccupatissimo, come molti altri regimi arabi conservatori e filoccidentali, che Hamas possa avere un successo politico. Non dimentichiamo che Hamas è il braccio militare dei Fratelli musulmani in Palestina, quindi una ideologia islamico-fondamentalista molto precisa. A maggior ragione Israele aspira a mettere la parola fine con un colpo risolutivo, anche mediaticamente importante, lanciando un segnale forte nell’area.
Quali sono i fattori che a suo avviso hanno indotto Israele a decidere per l’attacco?
Con le elezioni tra un mese, avere una parte del paese sottoposta continuamente da anni a uno stillicidio di bombardamenti non poteva che accentuare la volontà di dare una lezione definitiva ad Hamas. Credo che questo abbia influito ancor più che le recenti elezioni nei territori controllati da Al Fatah. Ha naturalmente giocato l’ostinazione di Hamas, nei territori da essa amministrati e che sono in condizioni disastrose, a fronte invece delle relativamente buone condizioni degli arabi e dei palestinesi in Cisgiordania, di condurre una guerra totale di sterminio del popolo ebraico in Israele. E ha giocato senz’altro l’elezione presidenziale iraniana: Ahmadinejad ha bisogno della radicalizzazione dello scontro, per poter rafforzare le sue già non poche speranze di vittoria.
Possono aver pesato ragioni di politica interna, per esempio la volontà di agire per impedire un trionfo di Netanyahu e del Likud?
Non credo. È chiaro che la politica estera, anche quella di difesa e sicurezza, viene decisa all’interno di una coalizione e quindi non può essere estranea rispetto alla politica interna. Ma non credo che abbia a che fare con la scelta di bruciare il terreno sotto i piedi a Netanyahu. Hamas ha rotto la tregua platealizzando la rottura, e questo ha portato Israele a ritenere che ci fosse un’opportunità.
Dobbiamo aspettarci un intervento di Hezbollah?
Se la guerra tra Hamas e Israele va troppo avanti sì, anche se temo soprattutto la ripresa di campagne terroristiche su larga scala. La Security Fence (la barriera che separa la Striscia di Gaza da Israele, ndr.) potrebbe rendere gli attentati più difficoltosi e meno frequenti. Ma più che un intervento aperto dalle frontiere libanesi, ipotizzerei un massiccio tentativo di infiltrazioni. Non è semplice far passare missili sopra la testa di Israele e in tal caso anche Hezbollah romperebbe la tregua. Non so quanto sia nel suo interesse.
Che ruolo gioca l’Iran nello scenario?
Quel che è successo in questi mesi risponde indubbiamente ad una regia iraniana. È difficile che Hezbollah possa muoversi in maniera indipendente, e d’altra parte Hamas ha ricevuto dall’Iran finanziamenti importanti. Quando dico Iran parlo di alcune fazioni interne al potere iraniano, più vicine al presidente, che si muovono in quella direzione.
I fatti degli ultimi giorni possono essere considerati una conseguenza dell’assenza politica degli Usa, in attesa dell’insediamento del nuovo presidente?
La posizione americana è legata alla vicenda irachena. La capacità di dissuasione degli Usa è diminuita, perché quando si vuole intervenire e non si ottiene l’esito sperato, la volta successiva non si può più minacciare ma si deve agire. E gli americani si guardano bene dall’entrare direttamente nel conflitto israelo-palestinese. Obama è un abile politico e sa benissimo che l’ultima cosa che ha interesse a fare è mettere la mani nell’ingranaggio più delicato e complicato del mondo, che ha stritolato mani ben più salde di quelle di un presidente non ancora in carica. La stessa Hillary Clinton ha imparato la lezione del fallimento del marito negli accordi di Camp David 2. Ma anche dopo l’insediamento ci saranno mosse caute, per ora la speranza di Washington è che la situazione non precipiti.
E l’Europa? Lei su La Stampa ha avuto modo di sottolineare la rinnovata iniziativa della Germania.
Angela Merkel ha detto chiaramente che la responsabilità dell’accaduto è esclusivamente di Hamas, che ha rotto unilateralmente gli accordi per il cessate-il-fuoco. La Germania ha colto a mio avviso il momento opportuno per mettere la sua fiche nel gioco della politica europea. Poche ore dopo questa dichiarazione, Sarkozy ha immediatamente convocato la sua ultima conferenza, è un’iniziativa che commentare è superfluo. Con questa iniziativa politica la Germania offre una sponda preziosa all’America fino al 20 gennaio, e fa capire a israeliani e americani che non c’è una timidezza europea nei confronti di Hamas e del sostegno a Abu Mazen. E che l’Europa è schierata senza ambiguità contro il terrorismo e contro chi viola gli accordi internazionali. Con un segnale in più.
Quale?
Far capire a Teheran che se l’Iran spera di portare a casa i suoi obiettivi contando su una spaccatura occidentale, si sbaglia. È il massimo che la Merkel potesse fare. Nel contesto europeo, non è poco.
C’è spazio per una mediazione italiana? Quali potrebbero essere i margini di intervento del nostro governo?
Nel 2006 la nostra mediazione ha avuto senso perché Israele e Libano erano favorevoli ad una mediazione europea, in particolare italiana, e all’invio di truppe, ed erano disposti a garantire entrambi la cessazione dell’attività bellica trans confinaria. Ma ora? Richieste da Hamas o dalla Lega araba, per esempio tramite l’Egitto, non ce ne sono e nemmeno da parte israeliana. Anche qualora avessimo la richiesta diretta da parte di Israele o indiretta di Hamas, dovremmo avere la garanzia di una soluzione duratura. Perché, ricordiamolo, anche la tregua ha dei costi: quando la tregua è stata l’alternativa alla guerra, i cittadini di Gaza hanno pagato un prezzo altissimo in termini di sanzioni economiche.