Un impegno concreto: abolire le province. Parafrasando il claim della fortunata campagna elettorale del 2001, Silvio Berlusconi lo aveva promesso solennemente alla vigilia dell’ultima tornata di aprile 2008. Un paese con un debito pubblico fuori controllo e perennemente alla ricerca di centri di costo da tagliare, in effetti non può continuare a permettersi una spesa totale che nel 2000 ammontava a 9 miliardi e 951 milioni di euro esplosa nel 2005 a 16 miliardi e 75 milioni, con un balzo del 62%. Specie in tempi di crisi finanziaria come oggi. Mentre Berlusconi traccheggia, nonostante la furia anti sprechi del suo ministro Renato Brunetta, settimana scorsa ci ha pensato il quotidiano Libero a rilanciare la battaglia per l’abolizione delle province. «Non riusciamo a capire perchè si sia tagliato tutto in nome di una indispensabile sobrietà gestionale – ha scritto in un editoriale appuntito, il direttore Vittorio Feltri – e poi si trascuri una miniera di quattrini come le Province».
Troppa grazia, verrebbe da dire. Perché di abolirne se ne parla da anni, senza mai affondare il bisturi però, e perché il tema è davvero corrosivo e rischia di spaccare anzitutto al maggioranza.



Il plenipotenziario di An nonché ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ad esempio è convinto che si possa arrivare all’abolizione nel giro di tre anni ed è pure convinto di riuscire a convincere il Carroccio. Ma Bossi sul punto non ci sente: «fin quando la Lega sarà al governo, tassativo, non ci sarà alcuna cancellazione». Per la Lega questi enti intermedi sono una specie di grande riserva di caccia, soprattutto in quella Pedemontana ricca e dinamica che corre dal Piemonte al Friuli Venezia Giulia (basti dire il lobbying che i leghisti hanno fatto per arrivare a far nascere nel 2009 la nuova provincia di Monza e Brianza). Insomma un sottobosco di potere, poltrone e consensi non indifferente. Non senza un retropensiero malizioso che circola nelle stanze di via Bellerio. La mossa abolizionista del Pdl, infatti, punterebbe anche a indebolire la forza territoriale del Carroccio, che proprio sopra il Po sta rubando molti voti agli alleati di Forza Italia e An, percepiti come sempre più meridionalisti. Risultato: per ora l’abolizione è rinviata sine die. Berlusconi non può permettersi di aprire un altro fronte con Bossi, dopo gli evidenti rallentamenti sul federalismo.



Il punto vero, però, al netto della dialettica e delle convenienze politiche, è che in tema di ridisegno dell’architettura istituzionale italiana, si continua a procedere a strappi. A colpi di piccone verbale, senza che dietro ci sia un disegno organico di riorganizzazione dei poteri e delle funzione della macchina pubblica dal centro al territorio. Per essere chiari: ci sono luoghi in cui la provincia è indispensabile per fare massa tra comuni troppo piccoli e poco densi sui temi di area vasta. E lo stesso vale per certe comunità montane. Viceversa ci sono macroaree meglio governabili su scala metropolitana e dove l’ente provincia dovrebbe scomparire subito. Ma quel che non si può fare è di tutta l’erba un fascio. Buttarla tutta e sempre in politica. Quel che è certo, andrebbero fermate subito tutte le nuove Province che stanno nascendo (ce ne sono circa 25 che giacciono nei cassetti del Parlamento), a cominciare da quelle della Sardegna. Soprattutto perché, dai calcoli dell’Istituto Bruno Leoni, «tra il 2000 e il 2005 sono più che triplicate le spese per ripagare i prestiti contratti dalle Province. E sono aumentate dell’81% le entrate per accensione mutui». Il che vuol dire che si indebitano e dipendono sempre di più dallo Stato, in totale controtendenza a quel federalismo che si dice, a parole, di voler applicare.

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