È ormai quasi un mantra del pensiero conservatore, poco importa circa la sua collocazione “spaziale” tra destra e sinistra, quello che sostiene che l’aver riconosciuto l’indipendenza kosovara sia stato un grave errore, foriero di imprevedibili, ma nefaste, conseguenze. Per far chiarezza su questo punto credo sia necessario distinguere tra quello che sarebbe stato preferibile rispetto agli interessi italiani, europei ed occidentali e quello che sarebbe stato assolutamente da evitare. Non c’è dubbio infatti che la situazione perfetta sarebbe stata quella in cui la dirigenza kosovara avesse accettato di rimandare la proclamazione dell’indipendenza, quella serba si fosse convinta dell’ineluttabilità di questo passaggio, e le potenze presenti in Kosovo (europei e americani) o storicamente legate ai serbi (russi) avessero trovato un ragionevole punto di incontro diverso dall’impasse.
Bene. Compiuto l’esercizio, ora chiudiamo il libro dei sogni e iniziamo a ragionare sulla realtà. Prendiamo perciò innanzitutto atto che gli interessi degli attori in Kosovo erano semplicemente incomponibili. Dopo che lo stesso documento del negoziatore Onu (il finlandese Martti Ahtisaari) aveva sostenuto che la piena indipendenza dell’ex regione serba fosse la sola possibile via d’uscita dalla situazione attuale, l’élite kosovara non poteva fare altro che proclamare l’indipendenza del Kosovo, pena altrimenti la sua piena delegittimazione e sostituzione con una élite diversa e più radicale. Questa è la lezione che la storia impartisce in tute le vicende delle “piccole patrie”: se i moderati, a un certo punto, non giocano la carta dell’audacia, non sottraggono la bandiera del “tutto e subito” ai radicali, finiscono per essere emarginati dal processo politico. In maniera esattamente analoga e speculare nessuna élite serba avrebbe mai potuto accettare di concedere l’indipendenza al Kosovo, se non voleva ritrovarsi immediatamente privata di ogni legittimità, nella migliore e meno sanguinosa delle ipotesi. Questo, evidentemente, era ancor più vera per quella parte di classe dirigente più orientata verso l’Europa e la futura integrazione della Serbia nell’Unione, che non poteva dare l’impressione di “svendere” la questione kosovara in cambio del via libera al futuro ingresso in Europa. Da un certo punto di vista, potremmo dire che la fine della situazione di stallo sarà comunque positiva sull’evoluzione della politica interna serba, perché depotenzierà gradualmente un argomento – la sovranità sul Kosovo o la sovranità del Kosovo? – che fino a ieri costringeva qualunque partito politico ad incorporare nel suo programma e nella sua comunicazione un’implicita quota di radicalismo.
Credere che allungando i tempi, questa configurazione di interessi sarebbe mutata è solo un futile esercizio. Avessimo anche avuto altri dieci anni a disposizione, fintanto che il processo era aperto ognuna delle parti poteva nutrire la speranza di fare il colpo grosso. A questo punto, invece, la decisione è stata presa, qualcuno ha vinto e qualcuno ha perso. Da qui a dieci anni, se saremo abbastanza bravi da lavorare a favore del consolidamento della nuova situazione, i serbi e i kosovari si concentreranno su altri obiettivi possibili e per loro auspicabili: per esempio l’ingresso congiunto nell’Unione, dove i loro interessi sono tutt’altro che inconciliabili, e dove starà soprattutto a noi europei renderli “sistemici e coordinati”. Potevano gli Stati che hanno migliaia di truppe e funzionari in Kosovo agire diversamente dal prendere atto dell’avvenuta proclamazione di indipendenza e riconoscerla? La mia risposta è no. Nel momento in cui l’indipendenza è stata proclamata, il non riconoscerla, avrebbe semplicemente sostituito uno scenario di incertezza e provvisorietà (indipendenza di fatto senza proclamazione) con un altro scenario di incertezza (proclamazione senza riconoscimento). Ciò avrebbe alimentato le speranze dei serbi che il processo fosse ancora reversibile, cioè avrebbe ricacciato i serbi in quell’atteggiamento mentale di confondere i propri desideri con la realtà che è costato fin troppo lutti a loro e ai loro vicini. In particolare, quelle truppe che la popolazione kosovara (all’85% di etnia albanese) aveva fino a quel momento considerato una forza di protezione si sarebbero trasformate ipso facto in una forza di occupazione, nell’ostacolo evidente e simbolico che si frapponeva alla definitiva conquista della tanto agognata indipendenza.
È stato infine sostenuto che questa indipendenza unilateralmente proclamata è un fatto antigiuridico che viola i precedenti e le best practices e rischia di costituire a sua volta un pessimo esempio per altri popoli che aspirano alla secessione. Qui credo che occorra essere molto netti, innanzitutto, nel ricordare che se il Kosovo si era trasformato in un “protettorato di fatto” della Nato, prima, e dell’Ue, dopo, era in conseguenza della pulizia etnica scatenata dalla Serbia del criminale di guerra Slobodan Milosevic contro il popolo kosovaro. Per quanto riguarda l’argomento del precedente, è opportuno piuttosto sottolineare che il Kosovo ha semplicemente seguito il percorso comune a tutti i protettorati della storia, un percorso al cui termine c’è la piena indipendenza. In questo senso, ci stiamo confrontando con un fatto che non è giuridico o antigiuridico, ma semplicemente politico e, in tal senso, agiuridico. Ed è proprio il riconoscimento della sovranità kosovara da parte di un numero congruo di Paesi “pesanti” e vicini che riconduce il fatto politico nell’alveo del diritto, e “sana” la natura agiuridica del suo momento costituente. Ovviamente altri invocheranno il “precedente” kosovaro per far valere le proprie rivendicazioni, ma c’è da dubitare che questo in sé possa mutare le chances di successo del tale o del tal’altro attore, se il quadro internazionale e il contesto locale non saranno altrettanto favorevoli alle loro rivendicazioni come nel caso appena discusso.
È stato sostenuto, infine, che questa decisione rischia di irritare ulteriormente la Russia e di render ancora più tesi i rapporti con Mosca. Anche qui un po’ di sano realismo non farebbe male. Unione e Russia hanno alcuni interessi di carattere “geopolitico” che non sono né comuni, né coincidenti, né componibili: dalle pretese russe di poter giocare legittimamente un ruolo particolare nelle vicende politiche di alcune ex repubbliche sovietiche (dal Baltico al Mar Nero) alla volontà di monopolizzare le reti di distribuzione del gas centro-asiatico, ai tentativi sistematici di inserire un cuneo tra Europa e Stati Uniti. Più in generale, mentre l’Europa guarda con favore al riordino e alla stabilizzazione dello spazio politico russo, non è nel suo interesse vedere risorgere ai suoi confini una superpotenza russa aggressiva e revanscista. Prima ne prendiamo atto tutti, russi ed europei, meglio sarà per tutti.



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