Lo ha scritto Shlomo Ben Ami su un autorevole quotidiano americano: basta con le pie illusioni sul conflitto israelo–palestinese. O meglio: basta con il ritornello della via di Gerusalemme come l’unica in grado di aprire spiragli di pace in tutto il Medio Oriente.
Troppe volte, difatti, le voci della politica invocano la tregua in quella striscia di terra ormai insanguinata da un cinquantennio, senza mettere in campo alcuna strategia politico-diplomatica credibile, ed i regimi arabi ne strumentalizzano le vicende e le pulsioni per scagliarsi con Israele e contro l’Occidente. Qualche tempo fa, il politologo americano Edward Luttwak lanciò una provocazione forte: e se ci disinteressassimo del Vicino Oriente? La risposta è retorica. Non possiamo disinteressarcene, semplicemente perché il futuro di quel conflitto riguarda tutti noi. Però dietro il ballon d’essai c’è l’ispirazione ad un ragionamento e per il quale le potenze, regionali o globali, dovrebbero mettere da parte i proclami e favorire un’azione costruttiva.
Le stesse considerazioni che troviamo nelle tesi di Ben Ami, già ministro degli Esteri israeliano, il quale ci richiama a considerare l’intreccio pericoloso tra minacce, vere o presunte, che costellano il Grande Medio Oriente, l’area che ormai va dal Marocco all’Afghanistan. Minacce ed opportunità che si schiudono all’ombra di nuove violenze, di integralismi sempre più agguerriti e di un’incertezza politica che rimanda ad una colossale “incompiuta” degli ultimi anni.
I nodi geostrategici di questa scacchiera sono principalmente tre: il corridoio talebano tra Afghanistan e Pakistan, il “pantano iracheno” e l’enigma iraniano.
In Afghanistan si gioca una partita essenziale per il futuro degli assetti geopolitici globali. I Talebani sono ormai tornati a Kabul, dove si moltiplicano gli attentati contro i presidi militari della coalizione internazionale e contro le popolazioni civili. Per non parlare poi dell’area al confine con il Pakistan, dove il conflitto sta conoscendo una recrudescenza senza pari, suscettibile di un inasprimento ulteriore con lo sciogliersi delle nevi in primavera sulle cime delle montagne della catena afghana. Vanno quindi fatte due considerazioni rispetto a quel paese. La prima è che rischiamo una sconfitta sul modello sovietico, che aprirebbe scenari preoccupanti in termini di lotta al terrorismo internazionale. Ecco perché serve un maggior impegno in Afghanistan, in termini di assistenza alle popolazioni, di addestramento delle forze di polizia locali e di presidio militare. Il collasso afghano provocherebbe anche un effetto domino sul vicino Pakistan, già oggi al centro di una preoccupante crisi interna, determinata dall’incertezza politica e dall’ambiguità recente del Presidente Musharraf. Oggi a Islamabad governa una coalizione civile, composta dal Partito Popolare della ex premier assassinata Benzir Bhutto e dalla Lega Musulmana di Nawaz Sharif. I generali controllano l’arma atomica, che è la variabile più preoccupante in caso di escalation dell’integralismo militante. Ma la condizione di equilibrio precario persiste ed è reso ancor più fragile proprio dalle mire dei Talebani.
Argomentazioni militari e politiche hanno la stessa dignità. Il problema sta nel comprendere che se si intende spingere sulla stabilità politica non ci si può più affidare a Karzai, leader raffinato e colto ma poco rappresentativo delle diverse anime tribali e politiche del paese.
In Afghanistan ha interessi diretti anche l’Iran, dove i falchi vicini al presidente Ahmadinejad hanno ottenuto una conferma alle ultime elezioni legislative. L’enigma iraniano si concentra sostanzialmente sulla pericolosa “ambiguità nucleare”: i leader religiosi spingono sull’acceleratore delle capacità atomiche, salvo poi confermare la natura squisitamente civile dei piani di arricchimento dell’uranio. Teheran ha compreso che nel cuore del Medio Oriente si è aperto un “buco geopolitico” che può occupare per la prima volta dai tempi dell’Impero. Lo sta facendo in maniera aggressiva e spregiudicata, all’insegna del posizionamento dell’affinità religiosa e dell’antioccidentalismo. L’Islam sciita non ha mai riscosso grosse simpatie anche nel mondo arabo, ma la presa del conflitto di civiltà è forte sulle opinioni pubbliche. L’Iran avrà presto un satellite militare in orbita, nuovi sistemi missilistici ed una capacità di ramificazione energetica ampia, grazie all’export del suo gas naturale. Le connessioni con Hizbullah in Libano e Siria e con i gruppi della galassia sciita nel sud dell’Iraq sono un’importante novità, che danno forza alle ambizioni geopolitiche iraniane.
Infine l’Iraq. La visita di Ahmadinejad a Baghdad è un evento storico. Il leader iraniano ha parlato dell’occasione di un nuovo equilibrio confessionale in un paese che fa a fatica ad uscire dalle secche del conflitto. Gli Usa hanno già preparato la loro exit strategy e, al di là del dossier terrorismo, per il quale la presenza di soldati americani verrà mantenuta in punti nevralgici del paese anche dopo il ritiro, l’Iran vuole assicurarsi che ai gruppi sciiti venga garantita un’adeguata rappresentanza e legittimità politico-istituzionale.
Il Medio Oriente è in piena evoluzione. Una adeguata capacità di analisi, previsione e decisione è quanto mai essenziale. La tempestività anche. Al di là della stretta via che passa da Gerusalemme e che merita un approfondimento speciale, un’attenzione unica, una battaglia politica e morale forte.



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