In un editoriale del 15 febbraio, Francesco Giavazzi ha rilanciato l’invito «ripartiamo dalla scuola», come tema base per la campagna elettorale. Questo il ragionamento dell’economista: abbiamo i salari tra i più bassi in Europa, perché abbiamo poca produttività e poca efficienza, e questo per la scarsa formazione data dal nostro sistema scolastico e universitario. Condivide questo ragionamento?
È un’analisi che trovo molto convincente: noi abbiamo un serio problema salariale perché in questo Paese la produttività non cresce, o cresce in maniera stentata, ormai da quindici anni. Questo ha portato a livelli salariali la cui evoluzione è stata molto contenuta negli ultimi anni. E questo perché l’accumulazione di capitale umano, e cioè quel capitale che si forma a scuola e nell’università, è in questo Paese visibilmente troppo basso. Un fenomeno che riguarda il sistema scolastico, dove abbiamo delle comparazioni internazionali che ce lo sottolineano, e accade anche nel sistema universitario, sempre visibile nelle comparazioni non solo con i sistemi dei Paesi più avanzati, ma anche con quelli che erano i nostri diretti competitori, come la Spagna: è una comparazione che ci vede chiaramente perdenti.
Che cosa fare per migliorare questa situazione?
Sulle cose da fare vorrei prendere le mosse dalle dichiarazioni recentemente rilasciate dai rettori delle università pugliesi. In risposta al manifesto di quelle università (Politecnico delle Marche, Bologna, Calabria, Milano-Bicocca, Politecnico di Milano, Modena e Reggio Emilia, Padova, Roma Tor Vergata, Politecnico di Torino, Trento, Verona, N.d.r.) che, ritenendo il proprio livello qualitativo al di sopra della media, hanno chiesto qualche settimana fa di vedere assegnati i fondi sulla base del merito, i rettori delle università pugliesi oggi rispondono: «noi siamo a favore della cooperazione e non della competizione». Personalmente credo che sia esattamente questa la logica alla base del disastro dell’università italiana. L’università italiana ha disperatamente bisogno di comparazione e di competizione tra le sedi universitarie. Quando i rettori dicono “sì alla cooperazione, no alla competizione”, in realtà stanno dicendo un’altra cosa, e cioè che sono a favore della collusione e non della concorrenza.
Come attuare, in termini concreti, una reale concorrenza tra gli atenei?
La concorrenza è difficilissima da attuare nel sistema universitario italiano, perché non possono esistere modelli diversificati di università: in larghissima misura le regole, le modalità di comportamento, i paletti sono imposti in modo uguale per tutti. Per questo dico che la concorrenza è difficilissima; c’è, ma è molto meno di quella che sarebbe desiderabile. Io non a caso, ormai tre anni fa, avevo proposto che si desse la possibilità, alle università che lo volessero, di trasformarsi in fondazione e di dare a se stesse modalità di comportamento privatistiche, e che nei confronti di queste università si passasse dal finanziamento delle spese dei professori direttamente al finanziamento degli studenti. A quel punto avremmo avuto un altro criterio rispetto al quale comparare il nostro sistema universitario. I rettori non solo non hanno permesso, ma non hanno mai nemmeno lontanamente immaginato che si potesse discutere questo progetto, perché, lo ripeto, in larga parte del mondo universitario vige un sistema collusivo, e non concorrenziale. Credo che sia assolutamente salutare, in questo senso, l’atteggiamento degli undici rettori universitari citati sopra, perché veramente rappresenta una rottura in un panorama che fino ad ora sembrava assolutamente stagnante.
Guardando i programmi di Pd e Pdl riscontriamo in entrambi l’intenzione di introdurre concorrenza nel sistema universitario: ma c’è reale intenzione da parte della politica di portare avanti questo progetto?
Questa è una un campo in cui, quale che sia l’opinione dei partiti, la necessità del Paese è fin troppo evidente. Per fare solo un esempio, noi stiamo finanziando in misura molto cospicua un programma di ricerca industriale, denominato «Industria 2015», che in larghissima misura poggia sul funzionamento delle università. La domanda che viene naturale è: com’è possibile che ci sia un’attività di ricerca e sviluppo degna di questo nome nel nostro sistema produttivo, se poi l’università è assente? È nella necessità del sistema di darsi un università più efficiente.
Guardando il dibattito della campagna elettorale, non sembra però che sia nelle priorità del mondo politico la questione scuola e università. Si può realisticamente prevedere che prima o poi questo tema passi nelle priorità dell’agenda politica?
Io penso che questo tema possa diventare una priorità; penso però che non sia un tema da campagna elettorale, e non mi stupisco di questo. Il punto è: una nuova maggioranza politica che esca dalle elezioni sarà in grado di porre al Paese il tema dell’istruzione e dell’istruzione superiore e universitaria? Certo non è una cosa non semplice. Porre ad esempio il tema delle tasse universitarie – Tony Blair ne sa qualcosa – non è facile politicamente. Però io ricordo a tutti che la battaglia sulle tasse universitarie è stata forse la più significativa vittoria di Tony Blair, perché fu combattuta in parte anche contro il suo stesso partito. Con quella battaglia Blair mise a rischio la propria leadership, e la vinse per un margine ristretto; ma in quella maniera è riuscito a mantenere l’università inglese ai livelli a cui oggi si trova. Quindi una classe politica che voglia veramente lasciare il segno non può non passare dalle questioni della scuola e dell’università.



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