Tutti i principali partiti politici hanno incluso, nei propri programmi in vista delle elezioni del prossimo aprile, il tema del miglioramento del sistema universitario, proponendo le più diverse ricette (abolizione del valore legale del titolo di studio, regole meritocratiche per la selezione dei docenti, ecc.). Peraltro, il problema della qualità del sistema universitario è stato al centro dell’attenzione negli ultimi mesi, anche per effetto di alcuni fatti di cronaca e di alcune trasmissioni televisive che hanno riacceso la discussione.
Si pensi, ad esempio, al fenomeno delle convenzioni stipulate tra università ed enti pubblici e privati, quali ad esempio Ministeri, Inps o ordini professionali. Tali convenzioni permettono al personale di questi ultimi di frequentare corsi di studio universitari e di ottenere il titolo, conseguendo un numero di crediti formativi inferiore rispetto agli altri studenti, grazie al riconoscimento delle attività lavorative sotto forma di crediti. Lo “scandalo” consisterebbe nel fatto che molte università (spesso private e piccole, ma non solo) si sostengano in modo consistente anche grazie a queste convenzioni, mettendo a rischio la qualità didattica, e al contempo svolgendo ben poca attività di ricerca. Fatto salvo che la riforma universitaria (DM 509/99 e successive modificazioni ed integrazioni) sancisce la possibilità di riconoscere crediti formativi per le attività professionali svolte, il problema è di individuare (scegliere) le modalità più adeguate di offrire istruzione universitaria: è accettabile che vi siano istituzioni universitarie che vivono esclusivamente della propria offerta di formazione, commercializzando i propri servizi, anche attraverso vere e proprie operazioni di marketing?
Nel mutato contesto dell’organizzazione del nostro sistema universitario, non si può rispondere a questa domanda in modo superficiale e frettoloso. È indubbio, infatti, che la domanda di istruzione universitaria (e, conseguentemente, l’offerta) si sia molto diversificata negli ultimi anni. Alla domanda tradizionale di corsi di studio universitari si è affiancata quella di corsi brevi, corsi di aggiornamento, master, specializzazione. Occorre allora prendere atto che il sistema deve cambiare, e contestualmente si deve ripensare il ruolo del settore pubblico nella regolazione del sistema universitario. Le possibili soluzioni “estreme”, cosi come suggerite dall’esperienza internazionale e dalla letteratura sul settore, sono due: (1) una stringente regolazione statale dei contenuti dei corsi e delle loro modalità di svolgimento, oppure (2) la realizzazione di un sistema in cui agiscano, con maggiore determinazione, le forze del mercato.
Oggi il sistema universitario italiano sembra essere in una situazione intermedia: da un lato, le università sono incentivate a competere per attrarre studenti (più studenti si traducono i più finanziamenti, sia sotto forma di tasse che di trasferimenti statali), ma al contempo il titolo rilasciato da ciascuna di esse è formalmente omogeneo, nonostante siano spesso note differenze sostanziali tra la qualità dei diversi percorsi formativi nelle diverse sedi universitarie.
La proposta del prof. Zingales, in un articolo sul Sole 24 Ore di qualche mese fa, e che riprende una discussione antica, è quella di abolire il valore legale del titolo di studio. Pur condividendo la proposta, mi sembra che, in larga misura, il problema sia sopravvalutato. Nel settore privato del mondo del lavoro, il titolo di studio è solamente un indicatore preliminare della qualità del laureato, che viene poi sottoposto a (spesso severe) valutazioni individuali da parte dei datori di lavoro. Non esiste il fenomeno dell’avanzamento di carriera automaticamente concesso a seguito dell’ottenimento di un titolo di studio universitario. Questo è, invece, quello che accade nel settore pubblico e negli ordini professionali, dove il titolo di studio è importante non perché aggiunge valore alla formazione dell’individuo, ma perché permette di acquisire uno status superiore nell’organizzazione. Ecco perché ci sono forti incentivi per i dipendenti di queste organizzazioni a conseguire un titolo, anche in età avanzata, ed anche con un significativo esborso in termini di pagamento delle tasse.
A fronte della situazione descritta, dunque, si può decidere di vietare la creazione di università e di corsi di studio che realizzino solo attività didattiche di questo tipo. La logica, in questo caso, è quella della “autorizzazione”, che sancisce la necessità, per l’autorità centrale (Ministero, Cun, ecc.) di controllare la qualità ex ante e proibire, sulla base di tale controllo, l’erogazione di corsi o l’istituzione dell’università. Tuttavia, questa soluzione appare oramai impraticabile ed inefficiente. Le ragioni sono, fondamentalmente, due: da un lato l’elevato numero di università già istituite e l’enorme numero di corsi già attivati, oltre a quelli che verranno attivati nei prossimi anni, rende molto difficoltoso il monitoraggio puntuale delle attività (un approccio di questo tipo può essere adeguato solo a sistemi universitari molto piccoli e poco complessi); in secondo luogo, la discrezionalità della valutazione rende difficile il raggiungimento di un accordo “trasparente” sulla effettiva validità dei corsi e delle università.
Per queste ragioni, una possibile strada da percorrere è quella (1) di una maggiore apertura del mercato, e (2) di un rifiuto di qualunque iniziativa che consenta rendite di posizione (quali l’immissione ope legis in ruolo di precari del settore senza alcuna procedura di valutazione, che spesso invece affiora come tentazione). Chiunque dovrebbe essere libero di istituire università ed attivare corsi di studio, reclutando i docenti con modalità sostanzialmente stabilite in autonomia. I titoli rilasciati non dovrebbero costituire un elemento formale per l’accesso alla pubblica amministrazione e per gli avanzamenti di carriera al suo interno. Gli studenti, a questo punto, non avrebbero alcun incentivo a frequentare corsi di studio con il solo obiettivo di conseguire un titolo, ma terrebbero in considerazione la qualità dei corsi (anche se, in questo, occorre essere consapevoli dei problemi di asimmetria informativa esistenti tra studenti/famiglie ed istituzioni, legati anche al fatto che la qualità dei corsi può essere adeguatamente valutata solo ex post, e spesso solo dopo diversi anni dal conseguimento del titolo). Le università che non sono in grado di sostenere tale competizione, nel lungo periodo, sarebbero costrette ad uscire dal mercato. Questo, si noti, varrebbe anche per le università statali. Il compito dello Stato, in questo contesto, sarebbe triplice:
– accreditare i singoli corsi di studio. Il Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario (Cnvsu) – o la nascente Agenzia (Anvur) – dovrebbe certificare, anche avvalendosi di esperti esterni, l’esistenza di alcuni “requisiti minimi” per ciascun corso, in termini di numero di docenti, strutture, ecc. I corsi non in possesso di tali requisiti potrebbero certamente essere attivati, ma non sarebbero finanziati con risorse pubbliche (questa modalità di intervento, peraltro, è già in parte operativa nell’attuale sistema di valutazione e di finanziamento);
– definire, con anticipo e per un arco di tempo sufficientemente ampio, le regole per la distribuzione dei finanziamenti statali;
– assicurare agli studenti la presenza di informazioni sui singoli corsi di studio e sulle singole università, affinché essi possano divenire, da questo punto di vista, “consumatori” ben informati. A tal fine, potrebbe essere realizzato un sito internet, seguendo il modello ad esempio del Regno Unito, in cui siano ben accessibili le informazioni fondamentali per ciascun corso: numero di docenti, nomi dei docenti, lo stato di accreditamento (ottenuto o meno), il costo di iscrizione, la percentuale e la tipologia di occupazione dei laureati in quel corso a uno/tre anni dalla laurea, il reddito medio percepito dai laureati, ecc.
La proposta contenuta in questo articolo ha scarso valore se viene interpretata come intervento a sé stante. Al contrario, affinché il sistema sia efficace, occorre introdurre, simultaneamente, alcuni altri provvedimenti. A mero titolo di esempio, il funzionamento di un “quasi-mercato” come quello sopra descritto è legato anche (1) alla possibilità degli atenei di selezionare gli studenti all’ingresso, e (2) all’opportunità per gli studenti di muoversi sul territorio nazionale per scegliere gli atenei migliori (sono necessari dunque borse di studio, prestiti, servizi residenziali).
L’errore commesso da alcuni precedenti governi (tra cui l’ultimo) è stato quello di non impegnarsi in una politica universitaria, ma solo in alcuni interventi singoli, dettati ogni volta da circostanze – o da interessi – particolari. Ci si augura che il prossimo governo abbia il coraggio e l’attenzione di mettere, finalmente, la riforma del sistema universitario al centro della propria agenda politica.