La morte di monsignor Rahho, vescovo caldeo di Mosul, riporta al centro dell’attenzione la drammatica situazione dei cristiani in Iraq. Pochi mesi fa una catena di attentati ha colpito le chiese di quella provincia. L’estate scorsa un prete e alcuni diaconi erano stati uccisi. Nel 2005 anche il vescovo siriaco della città, Casmoussa, era stato rapito e poi rilasciato.
Su 22 milioni di abitanti, i cristiani in Iraq sono attualmente il 3% della popolazione. Appartengono a diversi riti: assiro nestoriano, siro-cattolico e siro-ortodosso; ciascun rito rappresenta il 7% dei cristiani. Di numero più ridotto sono gli armeni ortodossi. I cattolici sono 260mila, il 70% dei quali di rito caldeo. I cristiani hanno sempre avuto buone relazioni con la maggioranza musulmana nel paese (il 97% degli iracheni sono di fede islamica).
È stato il regime di Saddam Hussein a causare persecuzioni e repressioni contro i cristiani, costretti all’emigrazione verso l’estero e in particolare verso gli Stati Uniti e il Canada. Dopo la guerra del Golfo del 1991, ben 150mila cristiani iracheni (1/6 del totale) sono emigrati in Occidente per sfuggire alla politica di repressione del regime. Durante l’ultimo conflitto in Iraq – che ha portato alla caduta del regime baathista – molti altri cristiani iracheni si sono rifugiati in Giordania, in attesa che la situazione consentisse loro di far rientro nella loro patria.
Il tasso di violenza che regna in Iraq rimane molto alto. Mosul, ad esempio, è città contesa tra kurdi, arabi sunniti e turcomanni, un conflitto sul quale si è innescata anche la “pulizia religiosa” condotta da gruppi islamisti che hanno approfittato delle tensioni etniche locali per colpire i cristiani. Situata geograficamente nel Kurdistan iracheno, Mosul è sotto controllo dei peshmerga e le forze speciali americane non effettuano operazioni antiterrorismo nell’area. Una concessione politica, prima ancora che militare, che gli Usa hanno fatto a uno storico alleato come i kurdi. Una scelta che ha favorito l’arrivo nel Nord degli islamisti in fuga dalle province centrali, scacciati dagli americani e, soprattutto, dai sahwa, i membri delle milizie armate sunnite un tempo loro alleati.
Senza alcuna tutela, in un clima in cui la polarizzazione tra sunniti e kurdi per il controllo della città e dell’intero paese non lascia spazio a identità terze, i cristiani sono divenuti oggetto di crescente violenza. Molti hanno lasciato il paese, alimentando l’imponente esodo iniziato dopo il 2003; altri, in una situazione in cui a tutti viene chiesto di schierarsi da una parte o dall’altra, hanno preferito convertirsi all’Islam. Trattati alla stregua di un un capro espiatorio, da sfruttare o da eliminare, non possono professare la loro fede liberamente, alle donne viene imposto il velo e le croci vengono tolte dalle chiese.
Oggi la violenza nella capitale è diminuita ma solo perché si è diffusa altrove ed è diventata più imprevedibile. E se gli attacchi sono diminuiti, in realtà è più che altro per scarsità di bersagli: più della metà del milione e 200mila cristiani che vivevano nell’Iraq di Saddam Hussein sarebbero fuggiti all’estero, in Giordania e in Siria. Un auto esilio che favorisce drammaticamente l’omogeneizzazione etnica e religiosa della società, facendo scomparire una delle più antiche comunità cristiane del Medio Oriente. La campagna di persecuzione ad opera di estremisti islamici, in atto nelle grandi città come nei villaggi, ha spinto il clero e i vescovi iracheni a lanciare numerosi appelli, in questi ultimi mesi, per l’unità del paese e in favore dei diritti della comunità, da sempre componente fondamentale della società irachena.
I cristiani in Iraq sono ormai considerati in via di estinzione e tagliati fuori dal processo politico del paese. La grave crisi della Chiesa in Iraq è dovuta a terroristi e fanatici, ma anche all’indifferenza della leadership politica che non garantisce le minoranze. L’aumento della disoccupazione tra i cristiani, le confische arbitrarie delle proprietà di famiglie a Baghdad e Mosul, le violazioni della libertà religiosa e di pensiero, rapimenti, attentati e minacce di stampo confessionale sono sintomatiche dell’indifferenza della leadership irachena, che non riconosce l’appartenenza dei cristiani a questa patria e la loro partecipazione umana ed intellettuale al progresso del paese come iracheni, insieme a tutte le altre comunità religiose che vi abitano.
Tuttavia, la mancanza di risposte da parte della leadership irachena non ferma l’azione dell’Ue che, proprio nel corso dell’ultima sessione plenaria dello scorso 13 marzo a Strasburgo, ha discusso metodi per la soluzione dei gravi problemi di ingiustizia civile presenti in Iraq.
Approvando con 506 voti favorevoli, 25 contrari e 26 astensioni la relazione sul ruolo dell’Unione Europea in Iraq, il Parlamento ha sottolineato che gli anni di regime del partito Ba’ath e i decenni di conflitti hanno lasciato una società traumatizzata dalla guerra, dalle repressioni, dalla pulizia etnica e dalla noncuranza a livello internazionale verso tali crimini. Pertanto, la comunità internazionale e in particolare gli Stati che hanno appoggiato l’invasione hanno il dovere giuridico e morale di sostenere il popolo iracheno.
L’Unione europea, coordinandosi con altri donatori internazionali, deve mobilitare in modo rapido e creativo tutti gli strumenti a sua disposizione per svolgere il proprio ruolo. Il Parlamento, inoltre, si è reso garante dell’importanza di cooperare con le Nazioni Unite per la creazione di un Iraq sicuro, stabile, unificato, prospero, federale e democratico. Tra i vari fronti di azione da parte dell’Unione Europea, particolare attenzione è rivolta alla costituzione di un regime che assicuri la protezione delle fasce di popolazione più a rischio. Tra queste, al centro della discussione rimane la situazione dei perseguitati religiosi e dei profughi in Giordania e Siria. Infine, è fondamentale porre l’accento sulla necessità di incoraggiare le Ong europee a cooperare con le controparti irachene e utilizzare pienamente lo strumento finanziario per la promozione della democrazia e dei diritti umani nel mondo.
Si tratta di provvedimenti minimi in confronto alla grave situazione di discriminazione in cui le minoranze religiose sono costrette a vivere ogni giorno, ma rappresentano una speranza di cambiamento verso la creazione di uno Stato civile e rispettoso della libertà di tutti. Soprattutto della loro libertà religiosa, che rappresenta il vero test del rispetto di tutte le altre libertà.