Cinque anni fa la Casa Bianca dava l’ordine di attaccare l’Iraq. Dopo appena due mesi, il Presidente Bush annunciava al mondo: “Mission accomplished”, missione compiuta, dal ponte di una portaerei. In realtà, la missione doveva cominciare proprio in quel momento e questi cinque anni avrebbero dovuto consolidare la stabilità, la democrazia, la sicurezza di un paese che oggi non ha più alcuna sovranità, né interna né internazionale.
Quella missione non è mai iniziata e oggi se ne pagano tutti gli errori e le conseguenze. A partire dalla pianificazione strategica di un conflitto che l’ex Segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, volle all’insegna della tecnologia e della messa in rete di 120mila soldati. Troppo pochi per presidiare un paese vasto geograficamente e con oltre 27 milioni di abitanti. O meglio, sufficienti a deporre Saddam, ma non a conquistare le menti e i cuori, a gestire la ricostruzione e le cosiddette “post-war operations”.
La scarsa conoscenza del territorio e della complessità etnica, religiosa ed antropologica dell’Iraq ha poi fatto il resto, con la decapitazione dell’establishment del partito Ba’ath al potere, che ha lasciato spazio a una guerra civile tra fazioni sunnite, sciite e curde per quel territorio che gli Usa non hanno mai controllato.
Il risultato è che oggi la popolazione, che pure in parte aveva salutato l’attacco come una liberazione dal dittatore, non si fida più dell’America. Le istituzioni sono embrioni talmente fragili da restare praticamente chiuse per venti giorni al mese, soprattutto per il timore di attacchi terroristici mirati contro esponenti del nuovo governo e del Parlamento. L’insofferenza degli stessi americani è ormai diventata ingestibile, proprio perché si è perso il senso della missione e si è svelata l’assenza di un piano organico per la transizione. Sono già tornate a casa 4.000 bare, mentre montano le polemiche per le violazioni dei diritti umani a Guantanamo e per i costi del conflitto, che il premio Nobel Stiglitz ha stimato in quasi 1.300 miliardi di dollari. Cosa che non fa piacere ascoltare in un momento in cui spirano venti di recessione economica.
Washington, da parte sua, ha già messo a punto la propria exit strategy, che sarà comunque il prossimo inquilino della Casa Bianca a gestire. Ci sarà un progressivo ritiro dei soldati, con un primo rientro a casa in estate ed una smobilitazione più massiccia per la fine del 2008. Rimarranno in Iraq alcuni plotoni, per gestire la sicurezza nella cintura verde di Baghdad, a presidio dei pozzi petroliferi nel nord curdo o impegnati nell’addestramento delle forze di sicurezza nazionali nell’area sunnita parzialmente pacificata di Anbar. Il resto sarà lasciato all’equilibrio della forza tra le mire egemoniche iraniane, che trova nell’Esercito del Mahdi di al-Sadr e nello Sciri una formidabile testa di ponte nel sud e la volontà della Turchia di contenere le ambizioni separatiste del Kurdistan.
Molto dipenderà dalle cosiddette “lessons learned”, dalle lezioni che gli Usa avranno appreso dagli errori commessi in questi anni. Nell’ultimo anno la politica ha fatto un passo indietro e la gestione è stata lasciata prevalentemente ai militari. O meglio, come ultima spiaggia, al Generale Petraeus, esperto di strategia e di insurrezione, il quale sta portando finalmente i soldati fuori dalle caserme, in mezzo alla gente. Troppo tardi? Forse sì. Ma questi cinque anni, almeno, non saranno passati invano.



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