Questo voto, più degli altri, è il voto del popolo contro l’establishment.
Due anni fa molti intellettuali e alcuni dei più importanti giornalisti italiani inneggiavano al cambiamento dell’Italia, che sarebbe stato portato da una coalizione progressista, egemonizzata culturalmente dalla Rosa nel pugno. Finalmente, dicevano, si sarebbe assistito alla fine dell’Italia delle appartenenze ideali, per permettere l’avvento di una posizione culturale “zapateriana” sul piano dei diritti della persona, imperniata su un solido statalismo nel welfare e nell’istruzione e su uno stravolgimento delle caratteristiche economiche del nostro Paese rendendolo pedina coloniale di un sistema internazionale governato dalla grande finanza.
Il Governo Prodi è stato invece un disastro e ha smentito clamorosamente tutte queste previsioni: la mentalità radical chic ha tentato di introdurre leggi su matrimoni invisi a una cultura popolare per quanto secolarizzata; lo statalismo ha ostacolato in tutti i modi i tentativi di ripresa del mondo produttivo italiano (che continua a incrementare le esportazioni, ma è bloccato da lacci e laccioli enormi); l’ostinazione nell’opporsi ad autonomia e parità ha peggiorato ancor di più la qualità della scuola; la pressione fiscale non accompagnata da una riduzione della spesa pubblica clientelare ha compresso i salari e reso più difficile la situazione economica di tutti; il centralismo burocratico ha impedito l’avvento di un welfare sussidiario, mortificato ulteriormente il Nord, non risolto alcun problema al Sud.
Di fronte a tutto questo è riemerso un voto di reazione contro chi opprime un’Italia che non è solo l’Italia dei consumatori, ma è anche l’Italia dei produttori e di chi genera nuove iniziative; un’Italia del Nord che non vuole dividersi dal Sud, ma vuole poter produrre senza essere vessata; un’Italia che non è quella degli evasori, ma di quelli che costruiscono e che vogliono tasse eque; l’Italia della scuola libera e autonoma, contro chi, dalle colonne di certi giornali, bolla da sempre la libertà di educazione come il principale fattore che limita la possibilità di una vera cultura.
Per questo è stato punito chi è l’anima di questo tentativo: la sinistra radicale, giustificata moralmente da un certo cattocomunismo, e gli intellettuali e opinionisti che volevano imporre la loro ideologia al popolo italiano considerato incapace di scegliere il suo destino. Per questo gli italiani non hanno voluto fare del nuovo centro post democristiano, l’ago della bilancia, perché pone la novità sullo schieramento e non capisce questa necessità di cambiamento nei contenuti della politica. Per questo l’importante e coraggiosa scelta di Veltroni di far correre il PD da solo senza la sinistra radicale non è stata premiata dagli elettori, perché insieme a personalità portatrici di un reale cambiamento, forti sono, nel suo partito, legami con quel vecchio mondo politico, protagonista del recente passato statalista. Per questo il successo del centrodestra è stato di proporzioni impensate non solo per la Lega, ma anche per Regioni come la Lombardia dove tale schieramento non è solo il punto di sfogo dei mal di pancia, ma un esempio di un nuovo modo di governare suggellato dalla conquista dell’Expo e da una vera svolta sussidiaria per lo sviluppo e la solidarietà, attraverso personalità come il governatore Formigoni e il sindaco Moratti. Proprio la Lombardia, con la sua politica sussidiaria, i “voucher”, le “doti”, le piccole e medie imprese che vanno all’estero, le infrastrutture che cominciano a funzionare, le persone anziane che invece di finire in un pensionato possono vivere con la famiglia, la formazione professionale che non è più clientelare, la possibilità che la scuola cominci a offrire quella opportunità di scelta che le famiglie desiderano, la sanità “mista”, ai vertici internazionali per la qualità, può essere l’esempio che trasforma un voto di protesta in una possibile svolta.
Non basta infatti al centrodestra aver vinto le elezioni: senza un cambiamento antropologico e culturale si finirebbe per rendere scontenti ancora gli italiani, come lo sono stati per il precedente governo Berlusconi. Occorre a livello popolare la ripresa dell’educazione a una fede e a valori ideali che hanno dato al nostro Paese le motivazioni e l’intelligenza per superare ogni crisi. Occorre una svolta culturale che mostri, nello spirito di quanto disse Don Giussani al congresso della Dc lombarda di Assago nel 1987, che la politica non salva l’uomo, ma può aiutare un cambiamento che nasce dalla società e dai suoi movimenti e, ancor di più, dal desiderio non sopito del cuore dell’uomo.
Questo e non qualche demiurgo o, peggio, le grida di quei giornali ciechi alle devastazioni di una finanza e di un mercato selvaggi, potranno aiutare il futuro governo a non sprecare ancora una volta la fiducia accordata dagli italiani. In questo senso è necessario un disegno riformatore largamente condiviso, come auspicato dagli italiani nelle risposte al Rapporto 2007 “Sussidiarietà e riforme istituzionali”. La semplificazione delle forze parlamentari lo favorisce e le prime dichiarazioni di Berlusconi che propone riforme condivise riesumando la bicamerale per le riforme, sono di buono auspicio in questo senso.
Infine, perché tutto questo si avveri, è necessario un rinnovamento della compagine ministeriale, che si allontani da ciò che si è visto in liste elettorali decise dalle segreterie dei partiti e popolate spesso da personaggi che gli italiani non avrebbero mai mandato a Roma se avessero potuto sceglierli. Occorrono personalità che scommettano realmente sul primato della società e di ciò che sussidiariamente ne nasce. Diversamente, una volta di più, una rondine non farà primavera, con risultati disastrosi per tutti.



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