Secondo me ha vinto la voglia di stare un po’ meglio – un poco, e nemmeno troppo – e ha perso l’utopia della felicità di Stato. Quel “po’ meglio”, modesto e umile desiderio popolare a basso tasso di ipocrisia, che non mi spiego come mai sia così difficile da comprendere. Cioè qui al Nord la vita non è così facile come vi raccontate tra di voi alla buvette o alla tivù. E non è che stiamo da dio solo perché il reddito procapite è un po’ più alto e dunque non dobbiamo lamentarci perché vuoi mettere una famiglia numerosa che vive al Sud? E io che ne so? So solo che ci facciamo tutti un mazzo tanto, terroni e polentoni insieme, che lo stipendio non ci fa ricchi, che i prezzi sono alti e i servizi non bastano a farci vivere decentemente. Che cosa vorremmo mai? Mah, un po’ di soldi in più se lavoro tanto, una città un po’ più a posto anche in periferia, un pochino meno di paura se devo andare in stazione.
Cioè, ci voleva tanto a capirlo? Sono bisogni da bestie o da esseri umani? Da mandriani o da persone civili? Il fatto è che se le tasse le pago, che almeno servano a qualcosa. Avrò diritto o no ad avere asili disponibili o trasporti che funzionano?
Invece no. Avete pensato che la felicità fosse un compito dello Stato. Che a decidere dei miei bisogni primari fosse un manipolo di orfani del muro di berlino, capaci solo di pensare che se non lavoro fisso è colpa dei padroni, che se non esco di casa è perché sono pigro e che se non faccio figli è perché è una mia libera, responsabile e incoraggiabile scelta. Che la ricerca della felicità non fosse mia prerogativa, ma compito di ministri che non vivono veramente in nessuna città, che campano di alleanze, si nutrono di ideologie, ed espellono di conseguenza. Di classi dirigenti tanto vicine alla gente e ai problemi dello sviluppo omogeneo del Paese da non sapere che la voglia di vivere e di sognare produce anche – e non solo – rifiuti. E che questi rifiuti vanno smaltiti come si fa in tutte le parti d’Italia.
E non ditemi che protesto, che non sono solidale, che guardo solo al mio tornaconto. Perché, gli altri a cosa guardano? Quale modello hanno in testa, quale progetto di Paese? Il punto è tutto nel “benchmark”, nel riferimento: io non so se si possa fare politica economica erigendo a modello sociale programmatico la famiglia di un postino del Sud. Cioè, può anche andare, ma forse c’è anche altro. O no?
Adesso, però, non so mica se starò meglio. Lo spero, ma ho sempre i miei dubbi. Non mi serve molto: asfalto migliore nelle strade, tombini allineati al manto stradale, segnaletica ben visibile, un po’ più di controlli, un po’ meno paure a girare nel quartiere, un po’ meno tasse, un po’ meno sprechi di denaro pubblico, un po’ più di servizi alle famiglie. Chiedo troppo? Chiedo da stupido? O chiedo il minimo indispensabile?
Anche se poi quello che voglio veramente, in cuor mio, se proprio non riusciamo a fare il quoziente familiare alla francese, è almeno il modello fiscale calcistico spagnolo o inglese. Meno tasse sulle società di calcio, più libertà di investire sui talenti del pallone. E la Champions come diritto. Almeno i sogni, lasciate che sia io a deciderli. Grazie.



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