Nella lunga serata di lunedì 14 aprile, quando la ridda dei dati elettorali si era finalmente calmata e le parole dei commentatori potevano permettersi un margine maggiore di riflessione, mi è capitato di sentire alcune frasi interessanti.
Mi ha colpito un’osservazione buttata lì, senza troppa insistenza, da Giuliano Ferrara, a proposito della scomparsa delle formazioni estremiste, sia a destra sia – soprattutto, data l’ingenza del caso – a sinistra. Alle parole di un altro ospite che si rammaricava del fatto che, in questo modo, una parte del Paese non aveva più una rappresentanza parlamentare, Ferrara rispondeva esprimendo qualche dubbio sul merito: sarà poi vero che questi partiti rappresentavano ancora qualcuno?
Queste parole hanno scoperchiato ai miei occhi un’ipocrisia che finora era rimasta nell’ombra.
Tra i rappresentanti della sinistra radicale sconfitta c’era chi si stracciava le vesti: adesso, dicevano, la parte di Paese più attenta al sociale, antiliberista e fautrice di una “più equa redistribuzione delle risorse” non ha più voce in Parlamento: dei due progetti che si opponevano ne rimane uno solo. Vecchio frasario marxista perfettamente in uso presso importanti e accreditatissimi commentatori.
Sempre nella stessa schiera qualcuno si lamentava, più concretamente, perché assai poco è stato fatto, questa volta, per captare il voto di protesta, che anziché andare verso Bertinotti sarebbe migrato in direzione di Bossi & Co.
In altre parole: da un lato c’era il voto degli insoddisfatti, che premiava formazioni estremiste; dall’altro c’erano i rappresentanti delle vecchie utopie, che raccoglievano questi voti riciclandoli perlopiù in vista di qualche royalty. Di fatto da molto tempo queste utopie hanno smesso di difendere gli interessi reali dei più bisognosi. E hanno tenuto fermo il dibattito sociale su vecchissime posizioni di principio.
La coraggiosa operazione di Veltroni e l’alleanza Berlusconi-Lega (evidentemente, con tutti i suoi limiti, Berlusconi conosce il Paese meglio degli altri) hanno spezzato questa catena che rischiava di trasformarsi in una iattura per l’Italia. Probabilmente, gli scontenti di sempre hanno intravisto una possibilità nuova, senza mandare il proprio voto alla deriva.
Adesso infatti la possibilità di fare le riforme di cui da decenni il Paese ha bisogno è diventata più concreta. Non sono affatto certo che si faranno (la vittoria schiacciante di Pdl-Lega potrebbe anche allontanarle), però è un fatto che la situazione parlamentare è cambiata soprattutto nel senso che è stata data più fiducia a quelli che possono essere – e speriamo che lo siano – gli attori reali del cambiamento.
È finita, grazie al cielo, l’epoca dei sogni: l’epoca, cioè, nella quale vecchie utopie, in nome di ceti di cui non erano più da tempo le rappresentanti – né ideali né reali -, mantenevano un alto potere di ricatto politico.
La vittoria, poi, della coppia Pdl-Lega, e soprattutto di quest’ultima, costituisce per Milano, dopo l’assegnazione dell’Expo 2015, una nuova iniezione di sicurezza.
Ma queste elezioni indicano anche, a mio parere, la direzione nella quale la città è chiamata a muoversi di qui all’Expo: non una stanca distribuzione di una torta già spartita, ma la valorizzazione di tutte le sue risorse, di tutte le sue eccellenze, di tutto il laboratorio di idee e opere di cui Milano non ha uguali al mondo, ma che spesso viene passato sotto silenzio – anche dalla stampa milanese.
Con un’attenzione speciale al luogo in cui le idee si sono sempre prodotte e comunicate: l’università, luogo-chiave come nessun altro per il destino di Milano e dell’Italia.
Per quello che mi riguarda, sarà soprattutto dall’attenzione rivolta all’educazione e alla formazione dei giovani che formerò il mio giudizio sugli anni a venire.



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