Il voto di domenica e lunedì verrà meditato a lungo, soprattutto da chi è uscito sconfitto dalle urne. La sinistra sta vivendo un momento di svolta epocale, con forti implicazioni politiche e culturali, che richiedono, secondo un adagio tipico dei perdenti, una lunga riflessione. Antonio Polito, direttore del Riformista, è reduce dall’esperienza fallimentare della maggioranza guidata da Romano Prodi: è tornato al giornalismo, e può giudicare con occhio libero, ma anche interessato, l’esito e l’effetto di questo voto per la sinistra.
Questo è stato un voto che ha cambiato l’aspetto della nostra politica, e del nostro Parlamento: qual è secondo lei la sostanza di questo cambiamento?
Secondo me l’elemento veramente rilevante e nuovo è che si è rotta la condizione di stallo in cui si è trovata la politica italiana dal 1994 ad oggi: per la prima volta si assiste a una vittoria che ha proporzioni di nettezza mai avute prima, e la formazione vincente è molto più compatta di come è stato fino ad adesso.
La crisi della sinistra italiana, in queste elezioni ha raggiunto il suo apice, e non solo in rapporto al Nord: quali sono le motivazioni di questa crisi? Sono politiche o culturali?
Innanzitutto bisogna precisare che in queste elezioni per la prima volta (ed è questa l’altra novità) si è divisa la storia politica e parlamentare della sinistra tradizionale da quella di un nuovo centrosinistra riformista. Questa è una caratteristica europea: in tutti i paesi europei, in Francia, Germania, Spagna, c’è una grande sinistra riformista e una piccola sinistra di opposizione. Sono due cose diverse, che non stanno più insieme. E sono così diverse che una ha preso il 33 %, l’altra il 3. Se parliamo della sinistra radicale, il dato è macroscopico: è scomparsa in maniera omogenea in tutto il territorio nazionale; non è il fenomeno di un’area. In Toscana ha perso gli stessi voti che altrove. Per il Pd invece il discorso è diverso: è un grande partito riformista, che ha dimensioni oggettivamente europee, perché il 33% è una condizione da cui si può partire. Sono voti che prende un grande partito quando perde le elezioni, anche se è ovvio che per vincere ce ne vogliono molti di più. È un partito che ha un radicamento omogeneo e diffuso nel Paese. È però strutturalmente minoritario al Nord, e questo è il suo grande problema, che gli impedisce al momento di diventare un partito vincente.
Rimaniamo allora al problema del Nord: perché il Pd, che pure ha puntato molto in campagna elettorale sulla questione settentrionale, non è riuscito a risolvere nulla, in termini di consenso?
La sostanza è che il centrodestra rappresenta gli interessi dei ceti sociali che sono emersi dalla trasformazione di questo decennio. Soprattutto c’è una caratteristica tutta italiana, cioè l’ossatura di microimprese, di partite Iva, di proporzioni senza paragone in Europa. Questo tipo di struttura economica è interpretato alla perfezione dal centrodestra, sia da Forza Italia che dalla Lega.
Ernesto Galli Della Loggia ha dato, dalla colonne del Corriere, un giudizio molto pesante sul centrosinistra di questi quindici anni: una forza conservatrice, che ha flirtato con i poteri forti. Eppure, dice ancora l’editorialista, Veltroni è una novità, che col tempo darà i suoi frutti. Condivide questo giudizio?
Diciamo che adesso c’è una realtà politica nuova che può fare un lavoro di cambiamento. Con Ds e Margherita questo non si poteva fare, e soprattutto in alleanza con la sinistra radicale. Non tanto perché la sinistra radicale bloccava alcuni provvedimenti del governo, ma perché un partito di governo che afferma di voler modernizzare l’Italia, fare le infrastrutture, modificare il welfare, e poi è alleato con forze che dichiarano che le infrastrutture non si devono fare, e il welfare non si deve cambiare, allora la credibilità del partito di governo è pari a zero. Quindi la rottura con la sinistra radicale era la condizione “sine qua non” per avviare questo cambiamento. È una cosa buona, e io trovo che sia perfino una cosa buona che la sinistra radicale non abbia avuto nemmeno un posto in Parlamento. Così si enfatizza la funzione del partito riformista.
Questo per quanto riguarda la parte positiva; e sul fatto dell’alleanza con i poteri forti?
Io non credo che la chiave della difficoltà del Pd sia questa. È vero che esistono degli snobismi un po’ sciocchi, come questa ossessione di candidare l’imprenditore credendo che questo apra le porta al Nord, quando il Nord è quello che dicevamo prima: una miriade di microimprese che considerano i grandi imprenditori estranei, se non proprio nemici. Tre artigiani, nelle liste elettorali, valgono più di un Colaninno. Il problema vero del Pd è che è visto come il partito che difende gli interessi dei lavoratori pubblici. Il recente libro di Livadiotti sui sindacati mette in luce il fatto che tra gli iscritti ai sindacati, il 75% prende i soldi dallo Stato, e questo è riconosciuto come il blocco sociale del Pd. La vera dicotomia è tra privato, cioè chi si arrangia con le proprie forze, per cui lo Stato è un impiccio, se non proprio un nemico, e il pubblico, cioè chi è garantito nel suo lavoro e quindi ha una spinta quasi oggettiva ad accrescere la spesa pubblica, perché è alla base del suo stipendio. La vera dicotomia è questa: Stato-privato. Il Pd appare come paladino dello Stato, e il Pdl paladino del privato.
Come farà il Pd a uscire da questa identificazione?
Secondo me il Pd deve rivedere completamente il proprio rapporto con i sindacati, ma deve riuscire a farlo senza perdere gli elettori. Veltroni ha provato un po’ a fare questo, però il passato e l’immagine (soprattutto del governo Prodi) è tale per cui il tentativo ancora non è credibile.
Al di là delle particolari condizioni del centrodestra e del centrosinistra, la presenza di due grandi partiti un po’ autonomi può far pensare alle condizioni necessarie per fare una serie di riforme condivise. Già Berlusconi ha parlato di recuperare lo spirito della Bicamerale: succederà veramente?
Io me lo auguro, perché questo nuovo clima politico dovrebbe in effetti consentire il fatto di fare cose in comune. La libertà dei due gradi partiti dovrebbe consentire di fare quelle cose che entrambi sanno che è necessario fare: per esempio la riforma del bicameralismo, che è un grande blocco del funzionamento del sistema legislativo, e di conseguenza la riforma dei regolamenti parlamentari, e io direi anche la riforma del finanziamento pubblico dei partiti. Queste sono le tipiche riforme che richiedono grandi maggioranze, soprattutto la prima. I due partiti lo hanno detto in campagna elettorale, e quindi sono anche tenuti a farlo. Poi per tutto il resto c’è conflitto politico, ma quello delle riforme è un dovere, in cui non c’entrano gli “inciuci”.