Il 2 aprile scorso, Bertie Ahern ha annunciato la sua volontà di dimettersi il prossimo 6 maggio da Taoiseach, cioè Primo Ministro della Repubblica di Irlanda. Salgono così a sei i leader che hanno avuto una qualche parte nell’Accordo del Venerdì Santo e che hanno deciso di abbandonare la scena politica. Si erano già ritirati John Hume, il vecchio leader del moderato nazionalista Partito Socialdemocratico e Laburista(SDLP), David Trimble del moderato Partito Unionista dell’Ulster(UUP) e, più recentemente, Ian Paisley, il leggendario leader dell’ultraunionista Partito Democratico Unionista(DUP) che, pur rifiutando di partecipare all’accordo originale, è diventato poi il Primo Ministro del governo dell’Irlanda del Nord; a questi occorre aggiungere Bill Clinton e Tony Blair. Dei leader chiave del 1998 rimangono solo Gerry Adams e Martin McGuinness, entrambi alla guida dello Sinn Fein. Tuttavia, l’accordo continua a tenere, anzi, è più forte, con Sinn Fein e DUP che partecipano all’amministrazione della provincia, rispettivamente con il vice Primo Ministro e il Primo Ministro. Ciò dice che se le personalità politiche possono spesso essere centrali per raggiungere un accordo, non sono però la dimensione fondante della sua durata, che ha radici in un terreno molto più profondo.
Per tutta la prima parte dell’aprile di quest’anno, i media irlandesi, britannici e, in misura minore, quelli internazionali hanno rivisitato le dense giornate di dieci anni fa, ricordando le complicate negoziazioni di allora attraverso gli occhi dei protagonisti. Quasi tutti i leader hanno oggi cose gentili da dire l’uno sul conto dell’altro, con l’incongrua eccezione dei leader dei due partiti unionisti, che dimostrano un profondo risentimento reciproco. David Trimble, il leader unionista moderato che lavorò così duramente per portare la sua parte al tavolo delle trattative, è stato ora confinato ai margini della storia, mentre Paisley e il suo partito, che resistettero a questo processo rigettandone ogni passo, sono al centro della scena. Questa storia è difficile da analizzare in termini razionali.
Le dimissioni di Bertie Ahern mettono in luce un’altra irrazionalità della politica moderna, che si sta manifestando solo di recente: la separazione tra gli effettivi risultati ottenuti e la reputazione presso il pubblico. Assediato per mesi dalle polemiche sulle donazioni politiche, Ahern non si è dimesso per comprovate malefatte, ma perché la sua posizione era diventata insostenibile per questo continuo attacco, che aveva cominciato a immobilizzare la sua capacità di azione. Un tribunale, istituito da lui stesso per indagare sulla corruzione, aveva cominciato a controllare i suoi conti bancari, scoprendo una serie di depositi per i quali non ha saputo dare una spiegazione convincente. Non si è appurato nulla di illegale, ma il persistente stillicidio di nuove rivelazioni associato ad una continua campagna mediatica contro di lui, gli hanno impedito di scegliere lui stesso il momento della sua uscita dal governo, che avrebbe voluto più in là nel tempo. Così, data la coincidenza delle sue dimissioni con il decimo anniversario dell’Accordo del Venerdì Santo, le ultime settimane del suo mandato sono state trattate dai media con un’equa ripartizione tra condanna ed esaltazione. Egli è stato pienamente lodato per il suo ruolo chiave nelle cruciali negoziazioni del 1998 e, tuttavia, condannato politicamente per fatti apparentemente di minor importanza. Vi è generale accordo sul fatto che la storia lo ricorderà come uno dei grandi leader irlandesi, eppure egli lascia il suo incarico in una nuvola di sospetti. Sempre più la politica appare come una soap opera senza alcuna morale finale.