Egregio Direttore,
faccio il magistrato da quasi un quarto di secolo.
L’articolo intitolato “Manifesto per una giustizia al servizio di tutti, senza ideologie”, di fonte redazionale, pubblicato il 7 aprile 2008 su questo quotidiano online, non può non colpire – per l’alta tensione di fondo che lo caratterizza – chi opera nel “calderone” della giustizia.
Quanto fa bene sentire richiamato il bisogno di giustizia, che è presente nel cuore di ogni uomo, e che impone ormai quella che a proposito viene invocata come “rifondazione in termini di senso” di tutto il settore giustizia!
Mi permetto di partecipare alla riflessione comune, giustapponendo alle vostre qualche altra osservazione che considero frutto dell’esperienza fin qui maturata come giudice (penale, civile, del lavoro e della sorveglianza).
Anzitutto debbo osservare come non tutti gli operatori del mondo della giustizia siano chiamati ad interpretare il loro ruolo come se esso fosse funzionale all’attuazione di un ideale di giustizia.
Se per giustizia dobbiamo intendere l’applicazione al caso concreto della volontà della legge (legge che per definizione dobbiamo presumere detti norme aderenti all’ideale astratto di giustizia, quale fatto proprio dal corpo sociale in un determinato momento storico), va da sè, ad esempio, che il compito dell’avvocato nel settore civile, se fosse inteso (com’è di fatto inteso) come rivolto a tentare di dare comunque ragione al proprio cliente (anche – cioè – ove la sua posizione contrasti con la volontà della norma giuridica), si pone per definizione in rotta di collisione con l’affermazione in concreto dell’ideale astratto di giustizia.
Lo stesso avviene nel settore penale: il ruolo del difensore dell’imputato è concepito come funzionale a fornire all’imputato un aiuto tecnico allo scopo di sottrarsi alla giusta richiesta punitiva dello Stato; se il difensore operasse solo per l’attuazione della giustizia, egli dovrebbe infatti limitarsi alla difesa degli imputati innocenti.
Appare chiaro a tutti – invece – che se anche l’avvocatura fosse chiamata a lavorare ogni giorno per l’attuazione dell’idea di giustizia, così come è obbligato a fare il giudice, vi sarebbe un numero infinitamente minore di processi civili e di processi penali, un assai minore spreco di risorse ed una davvero ragionevole durata del processo: ecco un esempio di riforma morale a costo zero!
L’articolo intitolato “Manifesto per una giustizia al servizio di tutti, senza ideologie”, di fonte redazionale, pubblicato il 7 aprile 2008 su questo quotidiano online, non può non colpire – per l’alta tensione di fondo che lo caratterizza – chi opera nel “calderone” della giustizia.
Quanto fa bene sentire richiamato il bisogno di giustizia, che è presente nel cuore di ogni uomo, e che impone ormai quella che a proposito viene invocata come “rifondazione in termini di senso” di tutto il settore giustizia!
Mi permetto di partecipare alla riflessione comune, giustapponendo alle vostre qualche altra osservazione che considero frutto dell’esperienza fin qui maturata come giudice (penale, civile, del lavoro e della sorveglianza).
Anzitutto debbo osservare come non tutti gli operatori del mondo della giustizia siano chiamati ad interpretare il loro ruolo come se esso fosse funzionale all’attuazione di un ideale di giustizia.
Se per giustizia dobbiamo intendere l’applicazione al caso concreto della volontà della legge (legge che per definizione dobbiamo presumere detti norme aderenti all’ideale astratto di giustizia, quale fatto proprio dal corpo sociale in un determinato momento storico), va da sè, ad esempio, che il compito dell’avvocato nel settore civile, se fosse inteso (com’è di fatto inteso) come rivolto a tentare di dare comunque ragione al proprio cliente (anche – cioè – ove la sua posizione contrasti con la volontà della norma giuridica), si pone per definizione in rotta di collisione con l’affermazione in concreto dell’ideale astratto di giustizia.
Lo stesso avviene nel settore penale: il ruolo del difensore dell’imputato è concepito come funzionale a fornire all’imputato un aiuto tecnico allo scopo di sottrarsi alla giusta richiesta punitiva dello Stato; se il difensore operasse solo per l’attuazione della giustizia, egli dovrebbe infatti limitarsi alla difesa degli imputati innocenti.
Appare chiaro a tutti – invece – che se anche l’avvocatura fosse chiamata a lavorare ogni giorno per l’attuazione dell’idea di giustizia, così come è obbligato a fare il giudice, vi sarebbe un numero infinitamente minore di processi civili e di processi penali, un assai minore spreco di risorse ed una davvero ragionevole durata del processo: ecco un esempio di riforma morale a costo zero!
Perché non lo facciamo?
Perché non cominciamo a dire che bravo avvocato è colui che riesce a dare un efficace contributo per l’attuazione della giustizia, e non chi riesce meglio ad aiutare il proprio cliente a sfuggire alla giustizia (sia in civile sia in penale)?
Il suggestivo richiamo, contenuto nell’articolo, alla radice etimologica del termine “patrocinatore” (pater), e l’aver rammentato che tale termine “…evoca l’idea di una responsabilità verso la totalità dei fatti costitutivi del reale…”, mi pare per così dire “in asse” con la mia proposta, e ben potrebbe indurre a proporre un cambiamento sostanziale del ruolo dell’avvocatura.
Senza contare che molti giovani laureati, pur bravi ed onesti, non pensano nemmeno di abbracciare la professione di avvocato per un giusto senso di scrupolo morale e per paura di essere costretti a smettere di essere davvero onesti.
Ma quanto volentieri accorrerebbero, specie i giovani laureati credenti, se il loro ruolo fosse reso compatibile con la loro coscienza!
E quanto meno imbarrazzante diverrebbe quel giuramento di fedeltà alla legge, che anche i giovani avvocati sono tenuti a fare all’inizio della loro vita professionale!
E quanto più facile diverrebbe, sull’esempio di quanto accade in altri paesi, lo scambio di ruolo giudice-avvocato!
Troppe barriere si oppongono invece, caro Direttore, alla reale affermazione dell’idea di giustizia.
Alcune difficoltà sono fisiologicamente connesse all’oggettiva difficoltà di ricostruire un certo fatto storico, e di inquadrarlo poi nella fattispecie astratta prevista dalla norma.
Ma altre difficoltà sono davvero del tutto artificiali: ce le siamo create noi, e sono tali da disturbare maledettamente l’attuazione della giustizia.
Trovo sacrosanta, dunque, la critica all’assurda molteplicità dei riti civili ed alla scelta – nel penale – del modello accusatorio col mantenimento, però, di istituti tipici di quello inquisitorio, ecc.
E poi: le riforme che hanno interessato negli ultimi tempi il settore della giustizia sono troppo spesso servite o a volutamente procrastinare i tempi della giustizia civile (si pensi all’incredibile ingorgo processuale previsto per la prima udienza), ovvero a garantire agli imputati che se lo possono permettere di sottrarsi alla giusta pretesa punitiva dello Stato (si pensi all’incredibile sistema delle mille incompatibilità ed alle altre “trappole processuali” che consentono ai processi di durare all’infinito, magari venendo annullati proprio nell’ultimo grado di giudizio per poi ricominciare da capo, ecc.).
Troppe norme – poi – presuppongono a monte la concezione del giudice non come di persona onesta, che ha davvero giurato fedeltà alla legge, ma di persona non indipendente, che ha una posizione ideologica o di preconcetto contraria alla parte, che fa politica, ecc.
È come se la Chiesa prevedesse che i cattolici che partecipano ad una messa debbano prima accertare che il celebrante sia veramente tale, che non sia stato sospeso a divinis, che non sia in peccato mortale prima di amministrare i sacramenti, ecc.
Già: perché la prima cosa da fare perché la giustizia possa funzionare è che la figura del giudice sia vista con il rispetto che essa merita.
Uno dei colpi più esiziali inferti alla giustizia è consistito nel far passare l’idea che il malfunzionamento del sistema dipenda dalla neghittosità, dall’incapacità, se non proprio dalla parzialità politica o dalla malafede dei giudici.
Si potrà pensare ad una difesa corporativa: il numero di colleghi che, in modo onesto, sacrificano tutta la loro vita, anche familiare, per onorare quanto più è possibile l’idea di giustizia, è invece davvero superiore a quanto i mass-media ci abbiano costretti a credere.
È per questo che condivido dunque la necessità di ripartire dall’essenziale, affermando con forza che lo scopo della giustizia consiste nell’affermazione del bene e quindi del giusto: se tutti gli operatori del diritto sentissero sulla loro pelle la tensione morale sottesa al vostro Manifesto, questo Paese potrebbe fare un “balzo in avanti”, così non solo onorando le sue invidiate tradizioni giuridiche, ma anche recuperando la dimensione di quell’umanesimo cristiano che anche di qui ha preso le mosse venti secoli fa.
Perché non cominciamo a dire che bravo avvocato è colui che riesce a dare un efficace contributo per l’attuazione della giustizia, e non chi riesce meglio ad aiutare il proprio cliente a sfuggire alla giustizia (sia in civile sia in penale)?
Il suggestivo richiamo, contenuto nell’articolo, alla radice etimologica del termine “patrocinatore” (pater), e l’aver rammentato che tale termine “…evoca l’idea di una responsabilità verso la totalità dei fatti costitutivi del reale…”, mi pare per così dire “in asse” con la mia proposta, e ben potrebbe indurre a proporre un cambiamento sostanziale del ruolo dell’avvocatura.
Senza contare che molti giovani laureati, pur bravi ed onesti, non pensano nemmeno di abbracciare la professione di avvocato per un giusto senso di scrupolo morale e per paura di essere costretti a smettere di essere davvero onesti.
Ma quanto volentieri accorrerebbero, specie i giovani laureati credenti, se il loro ruolo fosse reso compatibile con la loro coscienza!
E quanto meno imbarrazzante diverrebbe quel giuramento di fedeltà alla legge, che anche i giovani avvocati sono tenuti a fare all’inizio della loro vita professionale!
E quanto più facile diverrebbe, sull’esempio di quanto accade in altri paesi, lo scambio di ruolo giudice-avvocato!
Troppe barriere si oppongono invece, caro Direttore, alla reale affermazione dell’idea di giustizia.
Alcune difficoltà sono fisiologicamente connesse all’oggettiva difficoltà di ricostruire un certo fatto storico, e di inquadrarlo poi nella fattispecie astratta prevista dalla norma.
Ma altre difficoltà sono davvero del tutto artificiali: ce le siamo create noi, e sono tali da disturbare maledettamente l’attuazione della giustizia.
Trovo sacrosanta, dunque, la critica all’assurda molteplicità dei riti civili ed alla scelta – nel penale – del modello accusatorio col mantenimento, però, di istituti tipici di quello inquisitorio, ecc.
E poi: le riforme che hanno interessato negli ultimi tempi il settore della giustizia sono troppo spesso servite o a volutamente procrastinare i tempi della giustizia civile (si pensi all’incredibile ingorgo processuale previsto per la prima udienza), ovvero a garantire agli imputati che se lo possono permettere di sottrarsi alla giusta pretesa punitiva dello Stato (si pensi all’incredibile sistema delle mille incompatibilità ed alle altre “trappole processuali” che consentono ai processi di durare all’infinito, magari venendo annullati proprio nell’ultimo grado di giudizio per poi ricominciare da capo, ecc.).
Troppe norme – poi – presuppongono a monte la concezione del giudice non come di persona onesta, che ha davvero giurato fedeltà alla legge, ma di persona non indipendente, che ha una posizione ideologica o di preconcetto contraria alla parte, che fa politica, ecc.
È come se la Chiesa prevedesse che i cattolici che partecipano ad una messa debbano prima accertare che il celebrante sia veramente tale, che non sia stato sospeso a divinis, che non sia in peccato mortale prima di amministrare i sacramenti, ecc.
Già: perché la prima cosa da fare perché la giustizia possa funzionare è che la figura del giudice sia vista con il rispetto che essa merita.
Uno dei colpi più esiziali inferti alla giustizia è consistito nel far passare l’idea che il malfunzionamento del sistema dipenda dalla neghittosità, dall’incapacità, se non proprio dalla parzialità politica o dalla malafede dei giudici.
Si potrà pensare ad una difesa corporativa: il numero di colleghi che, in modo onesto, sacrificano tutta la loro vita, anche familiare, per onorare quanto più è possibile l’idea di giustizia, è invece davvero superiore a quanto i mass-media ci abbiano costretti a credere.
È per questo che condivido dunque la necessità di ripartire dall’essenziale, affermando con forza che lo scopo della giustizia consiste nell’affermazione del bene e quindi del giusto: se tutti gli operatori del diritto sentissero sulla loro pelle la tensione morale sottesa al vostro Manifesto, questo Paese potrebbe fare un “balzo in avanti”, così non solo onorando le sue invidiate tradizioni giuridiche, ma anche recuperando la dimensione di quell’umanesimo cristiano che anche di qui ha preso le mosse venti secoli fa.
Cordialmente
Giovanni Maria Pavarin – Magistrato di Sorveglianza di Padova
(Foto: Imagoeconomica)