Nell’arco di questi quindici anni la cifra che ha contraddistinto i governi di centrosinistra è stata sicuramente quella dell’alto tasso ideologico, che ha avuto come conseguenza quello di generare meccanismi di riforma distanti dalla realtà. Questo è accaduto sia sul piano del rapporto tra Stato e cittadini, sia sul piano dell’attività politica in settori come l’economia, l’istruzione o la sanità. Gli stessi nomi dei politici di sinistra (come ad esempio Vincenzo Visco, o Rosy Bindi) sono rimasti nell’inconscio collettivo per esprimere un elevatissimo tasso ideologico.
Un tasso ideologico che sicuramente non ha definito l’agire dei cinque anni del governo Berlsuconi, nei quali però si è manifestata un’altra contraddizione, tutta tipica del centrodestra, e che ha avuto la sua consumazione con la vicenda elettorale ultima. Se dal versante del centrosinistra abbiamo avuto un forte tasso ideologico, dall’altro abbiamo avuto un forte tasso di personalismo, per cui processi di riforma che partivano da intuizioni corrispondenti allo stato delle cose e alle condizioni di realtà, sono stati frenati, rallentati o depotenziati dai personalismi espressi di volta in volta da Follini, Casini o dal Fini prima versione, cioè quello che si era mostrato sensibile alle sirene dello statalismo.
La condizione che oggettivamente bisogna rispettare per poter andare fino in fondo di quella che quindici anni fa Forza Italia chiamava la rivoluzione liberale, o dello sviluppo di un’azione di governo incentrata sul principio di sussidiarietà, è esattamente quella di mantenersi coerenti con ciò che in termini di programma il centrodestra ha espresso in questa circostanza elettorale. È possibile riuscirci? Questo è un passaggio molto delicato, perché è sotto gli occhi di tutti il fatto che, al di là delle politiche che l’esecutivo prova ad applicare, esiste una macchina del sistema Italia che soffre di radici, e quasi di un Dna che è potentemente assorbito da una visione statalista, e dove l’intervento della mano pubblica è finalizzato al culto della rendita politica.
Il primo antidoto per superare questo difetto strutturale è quello di affidarsi a personalità che siano profondamente ispirate da quella che io chiamo la cultura della sussidiarietà: persone che concepiscano cioè le istituzioni come il frutto di un patto di libertà tra i cittadini, e che quindi guardino ai tentativi che i cittadini fanno per rispondere ai propri bisogni in modo per l’appunto sussidiario, sentendosi garanti e non padroni della vita dei cittadini stessi.
In secondo luogo, è necessario che il sistema Italia sappia fare Europa più di quanto non si sia fatto fino adesso. Curiosamente si invoca spesso un’azione (ad esempio per alcune condizioni oggettive di politica economica) che l’Italia non è chiamata e non è più nelle condizione di fare, ma che spetta all’Europa; e al tempo stesso non si ha invece il coraggio di porre rimedio ai mali tipicamente italiani, che frenano potentemente il ritorno di competitività del nostro Paese rispetto agli altri paesi europei, e i cui ambiti di riforma sono sotto la responsabilità dei nostri governi. Penso ad esempio al sistema della giustizia, o a quello della scuola, dell’università e della ricerca, o al sistema della sicurezza, che ha mostrato tutta la sua debolezza, soprattutto in questi ultimi tempi.
Oltre a tutto questo, rimane poi ancora aperto il problema delle riforme istituzionali. Io sono del parere che prima ancora di disegnare ipotesi, si debba cercare uno strumento per un dialogo reale; e reputo ancora una volta che forse il momento in cui si era riusciti ad andare più avanti su questo fronte, fino a quando non sono esplose le contraddizioni degli schieramenti, sia stato quello dell’ultima Bicamerale. E forse bisognerebbe ripensarci.