Historia magistra vitae; e di storia di governo Silvio Berlusconi incomincia ad averne alle spalle parecchia. Quanto basta per aspettarsi che questa nuova partenza incominci a dare quei frutti di rinnovamento del sistema politico e statale italiano, che gli elettori Pdl si aspettano. Per capire come il centrodestra dovrà muoversi in questa nuova impresa, ilsussidiario.net ha dialogato con il direttore di Panorama Maurizio Belpietro, che del mondo del centrodestra, e del suo leader in particolare, ha certamente una conoscenza approfondita.



Ora che Silvio Berlusconi si appresta a riafferrare le redini del potere politico, è il caso di guardare con spirito critico alla precedente esperienza di governo del centrodestra. Che cosa ha impedito al Berlusconi in carica dal 2001 al 2006 di attuare una vera politica innovativa e incisiva?

Innanzitutto bisogna inquadrare i due periodi storici. Possiamo pur dire che Berlusconi è un uomo molto fortunato: a nessun leader politico della prima e seconda repubblica è mai capitato di riuscire a governare per un periodo così lungo. È successo qualcosa di simile ad altri, ma per periodi spesso molto brevi. Berlusconi è alla sua terza possibilità e presumibilmente ha davanti a sé altri cinque anni; vorrebbe dire governare per undici anni, ed è davvero tanto. Al tempo stesso, però, dobbiamo ammettere che è anche un politico molto sfortunato, perché è incappato sia nel 2001 (con l’attentato dell’11 settembre), sia nella circostanza attuale, in periodi congiunturali, a livello di economia internazionale, tra i peggiori che si potessero immaginare. Ciò che principalmente ha inciso sulla legislatura 2001-2006 è stata la situazione economica; se ci fosse stato il periodo di cui beneficiò il governo Dini, e i governi Prodi, D’Alema e Amato, probabilmente quello che Berlusconi aveva in animo di fare, e aveva promesso agli italiani, sarebbe riuscito a realizzarlo. Non è riuscito a farlo per una serie di fattori, e in cima a questi c’è la congiuntura internazionale. Ecco perché dice che dovrà prendere provvedimenti impopolari.



Quali sono state invece le cause interne che in passato hanno bloccato il centrodestra?

Il fattore interno che ha pesato di più nella precedente esperienza di governo (e mi sembra che Berlusconi ne abbia fatto tesoro) è stata l’eterogeneità della coalizione. Quella del 2001 era una coalizione che sicuramente è servita per vincere, ma non so se è servita per governare; all’interno della Casa delle Libertà c’erano opinioni e intendimenti diversi, e lo si è capito quasi da subito. Berlusconi, nel tentativo di raggiungere il risultato che si era prefisso, ha mediato fin troppo; ha fatto sì che quei cinque anni siano stati un’esperienza di governo lunga e anche per certi versi solida, ma per riuscire a ottenere questo ha fatto una serie di concessioni agli alleati che non gli hanno consentito di realizzare il programma. Questo è stato sicuramente il problema politico principale. Di questo errore Berlusconi ha fatto tesoro, e quando si è dovuto andare a votare ha imposto delle condizioni molto rigide, che hanno provocato l’uscita di scena dell’Udc.



Siamo dunque di fronte a un nuovo Berlusconi, che ha già messo una pezza agli errori del passato?

Secondo me abbiamo di fronte un Berlusconi che conosce i propri limiti, e non a caso si presenta con un volto diverso. Non promette miracoli, da un lato perché sa che la situazione internazionale è complicata; dall’altro perché ha sperimentato che l’apparato dello Stato crea dei blocchi. Il capo del Governo, infatti, non ha tutti i poteri, per cui basta schiacciare i pulsanti per far partire la macchina. Quando allora Berlusconi dice: «conosco bene la macchina della Stato, l’ho amministrata e quindi so come funziona», credo che intenda dire proprio questo, esprimendo la consapevolezza che non c’è automatismo tra una decisione del capo del Governo e la sua rapida traduzione operativa. È un leader molto più cauto, molto più consapevole di alcuni limiti che ci sono nell’esperienza politica.

Il cambiamento politico che molti si attendono non riguarda solo la coalizione vincente, ma anche i rapporti tra le due colazioni: è possibile avviare una politica di maggiore dialogo fra le due parti politiche, che eviti il continuo ed estenuante muro contro muro?

Anche da questo punto di vista mi pare che Berlusconi abbia fatto tesoro dell’esperienza. Ha evitato (anche grazie al fatto che il fronte dell’opposizione non era così aggressivo) di fare una campagna elettorale in cui lui fosse in prima linea con tono forzato. Noi eravamo abituati a un leader che ci metteva la faccia, con i grandi manifesti con il suo volto e i suoi slogan, e lui sempre in prima fila. Questa volta non ha fatto così, sorprendendo tutti: gli altri, infatti, avevano imparato da lui questo metodo di campagna elettorale e ci hanno messo il volto, tutti, da Casini, a Veltroni, a Bertinotti. Il volto di Berlusconi, invece, soprattutto nei manifesti, non c’era.

È stata solo una mossa tattica per vincere le elezioni, o c’è qualcosa di più?

Con questa mossa il Cavaliere ha voluto evitare che si coalizzasse il fronte dell’anti-berlusconismo, che è sempre stato un collante formidabile per la sinistra. Berlusconi non vuole che si riunisca più questo fronte, e mira invece a valorizzare ciò che di buono si può cogliere dall’opposizione. Non a caso ha detto non solo di voler fare insieme alcune riforme, ma anche di voler condividere alcuni provvedimenti, come per esempio gli interventi per le famiglie, il bonus bebé, o la detassazione degli straordinari. Questi non sono provvedimenti né di destra né di sinistra, e possono dunque essere condivisi.

Ci sono anche importanti riforme istituzionali, di cui il Paese ha bisogno. Ci si può aspettare qualcosa di positivo anche su questo versante?

Credo che le riforme si possano fare; in realtà c’erano quasi arrivati già prima. Quando prima delle elezioni Berlusconi e Veltroni si incontrarono sul tema delle riforme, trovarono dei punti di intesa. La riforma elettorale era di facile portata. Chi si mise di traverso? Si misero di traverso i partitini, i quali avevano tutto da perdere. È ovvio che i “nanetti” cerchino di difendere la loro rendita di posizione, per poter perpetuare il clima di ricatto che hanno sempre esercitato nei confronti dei partiti maggiori. Noi avevamo il paradosso che per tutelare le minoranze alla fine non tutelavamo le maggioranze. Il risultato è che non c’era mai una maggioranza stabile. Credo che su questo punto dunque tra Pd e Pdl l’intesa sia facilmente raggiungibile.

Nel periodo che ha preceduto il voto si è parlato molto della “casta”, e di conseguenza anche di antipolitica: il forte successo della Lega si inquadra forse in questo ambito?

Il voto alla Lega non è innanzitutto antipolitico, ma semmai un voto che va contro il politicamente corretto. La Lega è un partito che su certi temi, come quello della sicurezza, dell’immigrazione e delle tasse, è abituato a parlare un linguaggio molto chiaro, molto semplice, che è un po’ il linguaggio senza le mediazioni politiche che la maggior parte delle persone utilizza. Non ritengo dunque fondata l’argomentazione per cui questo sia stato un voto di protesta, o un voto di antipolitica. Così come non condivido l’argomentazione di chi parla di partito radicato sul territorio. Ci sono tanti partiti ben più radicati sul territorio, come ad esempio gli eredi del Pci. Il fatto che perdano terreno proprio nella loro area, come ad esempio nell’Emilia Romagna, è evidentemente un segnale che non parlano più lo stesso linguaggio. La loro proposta politica non è la proposta politica che quella fascia di persone vuole sentirsi dire, e quella della Lega è invece una politica più vicina alla gente. Il ragionamento del cittadino comune è: quando parlo di immigrazione e dell’esigenza di regolamentare l’immigrazione non voglio essere accusato di razzismo, perché è un problema serio e ritengo che il parlarne sia non solo un dovere per un politico, ma anche una necessità per un cittadino. Chi non capisce questo non ha capito le ragioni del successo della Lega. Quando Livia Turco, che si è anche occupata di immigrazione, dice che «la Lega aumenta le paure della gente», non si rende conto che le paure ci sono a prescindere; la Lega semmai dà una riposta a quelle paure.

Lei accennava ai problemi della sinistra. Il Pd avverte drammaticamente il problema di non riuscire ad intercettare il voto del Nord; addirittura il quotidiano La Repubblica ha lanciato l’idea di fondare un nuovo partito, una sorta di “Pd del Nord” federato con il Pd nazionale. Qual è il suo giudizio in proposito?

Il problema non è quello. Il Pd non ha perso al Nord, ma in tutta Italia: ha perso la Sardegna, dove non è amministrata da un uomo di sinistra ma da un imprenditore che si ispira alla sinistra; ha perso la Campania e la Calabria; ha perso la Puglia, dove c’era colui che sembrava l’uomo nuovo della sinistra radicale; ha perso l’Abruzzo, dove aveva vinto con Del Turco. Il Pd non sa parlare al Nord come al Sud. Fare il Pd del Nord non serve a nulla, soprattutto se non cambiano i programmi. I programmi non ci sono, non sono credibili e non sono applicati. Un ulteriore e fondamentale problema degli uomini del Pd, poi, è il loro complesso di superiorità, di cui sono essi stessi la prima vittima. Quando il leader di un partito democratico si permette di chiedere al leader della parte avversaria un documento che certifichi la sua patente di democraticità, vuol dire che ritiene di essere superiore a lui e a tutti quello che lo votano. Significa che non lo ritiene democratico, mentre tutti quanti in questo Paese sono democratici fino a prova contraria. È un complesso di superiorità che porta la sinistra a considerarsi un’élite. Ed essendo un’élite, è minoritaria.