Fino a poco tempo fa, quando si parlava di federalismo fiscale incominciavano ad aleggiare i più disparati fantasmi e presto ci si ritrovava in una vera e propria Babele, dove si prospettava l’esplosione dei costi, l’aumento della pressione fiscale, la frattura del Paese. Così non si centrava mai il dramma italiano, dove il federalismo è una grande incompiuta, innanzitutto per effetto della mancanza del federalismo fiscale. Di questo si sta ora acquisendo consapevolezza. È infatti evidente che è proprio la mancanza di federalismo fiscale ad affossare la competitività del sistema, a rischiare di spaccare il Paese, a determinare l’esplosione dei costi. Senza federalismo fiscale lo Stato non si ridimensiona, nonostante abbia ceduto competenze legislative e amministrative, e le Regioni e gli Enti locali non si responsabilizzano nell’esercizio delle nuove compente ricevute prima con la Bassanini (1998) e poi con la riforma costituzionale del 2001.
Nell’ultima finanziaria, ad esempio, nonostante l’organizzazione sanitaria sia ormai materia di competenza primaria delle Regioni, lo Stato ha erogato a favore di cinque Regioni del Sud in extradeficit sanitario ben 9,1 miliardi di euro. È un esempio eloquente: quale interesse può avere un’amministrazione regionale a combattere l’inefficienza se poi lo Stato ripiana ogni deficit mettendolo sul conto della fiscalità generale, cioè a carico di tutti gli italiani? Per farsi un’idea di dove porta questa logica, basta leggere le recenti relazioni regionali delle Corte dei conti, dove pullulano pronunce come questa, “di condanna al risarcimento del danno, in favore dell’Asl n. 4 di Matera, contestato ad alcuni professionisti in qualità di componenti di una Commissione di collaudo nonché ai vertici della Azienda Sanitaria per atteggiamenti gravemente colposi tenuti in occasione dell’acquisto e della installazione della RMN (Risonanza Magnetica Nucleare) mai utilizzata, in quanto presentava vizi tali da renderla inadatta alla sua destinazione”.
Senza federalismo fiscale nella situazione istituzionale italiana è impossibile pensare di controllare la spesa pubblica; al massimo si possono introdurre meccanismi di blocco generalizzato della spesa che creano effetti perversi perché premiano l’inefficienza e disincentivano i comportamenti virtuosi. Verrebbe infatti bloccata la spesa della Basilicata che serve a mantenere 215 dipendenti regionali ogni 100mila abitanti, allo stesso modo di quella del Veneto che ne mantiene 69 o della Lombardia che ne mantiene 43. Senza rovesciare questa dinamica e senza creare reali incentivi all’efficienza non si potranno creare sufficienti motivazioni per realizzare interventi di razionalizzazione della spesa pubblica. Anche perché nemmeno la spesa delle amministrazioni centrali dello Stato è diminuita; anzi, come recentemente ha dimostrato una ricerca condotta da Astrid, essa è enormemente aumentata negli ultimi anni, nonostante il (finto) federalismo.
Cosa fare da subito? Occorre dare attuazione all’articolo 119 della Costituzione e varare quella legge statale di coordinamento della finanza pubblica che sola può accendere il federalismo fiscale. Qui vi sono due possibilità: o prendere come punto di riferimento il disegno di legge elaborato nella scorsa legislatura dal Governo o assumere come punto di riferimento altri modelli come quello approvato da Regioni come la Lombardia e Veneto. Quello governativo era un disegno di legge negoziato a lungo con le Regioni, che per questo assumeva qualche criterio innovativo, come il finanziamento dei costi standard e il superamento della spesa storica. Tuttavia era anche intriso di statalismo soffocante e mortificava l’autonomia impositiva regionale e locale, in particolare sui tributi propri. I disegni di legge regionali, in particolare quello della Lombardia, hanno invece una caratterizzazione più dinamica, anche perchè assumono e sviluppano alcune conclusioni dell’imponente lavoro svolto dal 2003 al 2006 dall’Alta Commissione sul federalismo fiscale. In particolare si riprende la centralità di una compartecipazione “intelligente” all’Iva, strutturata secondo il principio di territorialità, e si decentrano imposte come i giochi e i tabacchi.
Si tratta di ottimi progetti che meritano di essere sviluppati aprendo anche prospettive ulteriori. Ad esempio: la possibilità di introdurre leggi Tremonti regionali di detassazione degli investimenti produttivi, riducendo la burocrazia implicata negli incentivi; oppure la possibilità di prevedere forme di fiscalità regionali di vantaggio per il Sud (oggi la Ue, se strutturate in un certo modo, le riterrebbe compatibili) che davvero favorirebbero il passaggio dall’assistenzialismo (che ha portato ai rifiuti di Napoli) alla promozione delle capacità (vedi il caso dell’Irlanda). Oppure, ancora, nel settore delle Public Utilities molti auspicano una maggiore presenza di soggetti non profit, perché possono rimediare sia ai fallimenti del mercato che a quelli dello Stato. In altri ordinamenti infatti tali soggetti hanno sviluppato politiche davvero innovative a vantaggio degli utenti. Nel nostro contesto, un’eventuale esenzione regionale dall’Irap a favore di questi soggetti che non perseguono fine di lucro si tradurrebbe in una riduzione dei costi delle utenze (acqua, gas, ecc.). In altre parole, l’esenzione Irap andrebbe a sgravare le bollette dei cittadini. Un effetto analogo si realizzerebbe consentendo la detrazione dai tributi regionali (ad esempio dall’addizionale regionale Irpef) di quelle svariate forme di bonus o voucher (per anziani, scuola, disabili, ecc.) sviluppate dal welfare regionale. Evitando tutta una serie di complicati passaggi burocratici, si lascerebbero fin dall’inizio i soldi alle famiglie evitando l’illogico meccanismo “prelievo e poi ridistribuzione” delle medesime risorse. Sono forme di attuazione del federalismo fiscale che non aumentano la pressione fiscale complessiva, riducono la burocrazia, favoriscono lo sviluppo della produzione economica e sociale, non spaccano il Paese ma responsabilizzano ulteriormente la classe politica locale.