C’è una costante nel dibattito politico degli ultimi vent’anni: l’incapacità di capire il Nord. Ovvero, l’incapacità di cogliere i confini, sempre più netti, di un processo di modernizzazione che da pura “questione settentrionale” segna oggi la storia dell’intero Paese.
C’è un gap culturale e analitico dietro i giudizi semplicistici rivolti alla Lega e al berlusconismo, ai settentrionali “egoisti, immaturi, evasori fiscali cronici, plebei, spacconi, ignoranti, impolitici” eccetera. L’ultima tornata elettorale ha riproposto il problema, con una forza ignota da oltre un decennio. Il Popolo delle Libertà e la Lega hanno fatto il pieno, sbancando in tutto il Nord e penetrando nella roccaforte emiliana.



La cultura di sinistra in preda al panico – In preda al panico, l’intellighenzia di sinistra ha ricominciato a macinare la solita minestra riscaldata, costruita su un’immagine tutta politica della realtà settentrionale, che nulla ha a che fare con la stoffa sociologica, economica e antropologica di quelle terre. Esempio di questo mood politicamente corretto è il politologo Ilvo Diamanti, che su Repubblica non è riuscito ad andare oltre l’immagine di un mondo di uomini spaventati, “unificato dal linguaggio (im)politico di Berlusconi e delle Lega”, che “ogni tanto esplode nelle zone pedemontane quando crescono la sfiducia e il risentimento”. Insomma, il solito Nord del nostro scontento, le cui non-ragioni risultano ogni giorno più oscure alle menti illuminate.
Stupisce questa debolezza di analisi. Anche evitando di incamminarsi in riflessioni a cavallo tra analisi storica e antropologia (che pur spiegherebbero molto del modello di sviluppo della Lombardia e del Veneto), basta un’attenta analisi socio-economica per capire davvero le origini, lo sviluppo e l’esplosione della “questione settentrionale”. Che nasce non certo oggi, bensì attraverso un “cambiamento strutturale delle forze produttive e della composizione sociale avvenuto nel corso degli anni Novanta” (Aldo Bonomi, “ Il rancore: alle radici del malessere del Nord”, ed. Feltrinelli).



I motivi della vittoria – Perché vince la destra al Nord? Perché la Lega si può presentare come un partito compiutamente post-classista, capace di farsi votare dal piccolo imprenditore come dall’operaio non specializzato della grande impresa, presentandosi come una sorta di “sindacato di territorio” in opposizione ai sindacati di classe (secondo l’efficace immagine di Marco Alfieri, giovane notista del Sole 24 Ore)? Vince perché incarna un “populismo” post ideologico ma per nulla anti-politico (e addirittura iper-politico, talvolta), che fa vincere l’unità territoriale e la frattura centro-periferia sulle distinzioni di classe e di ceto tipiche del conflitto tradizionale destra-sinistra. Un “populismo”, costruito su un profondo radicamento territoriale, su una modalità di far politica classica, capace di sopperire al vulnus democratico determinato dall’eliminazione delle preferenze con una presenza capillare, immischiata fino in fondo nei ritmi di una società che cresce scossa da profondi sommovimenti.
Lo stesso Alfieri ha pubblicato poche settimane prima delle elezioni un libro che sa di profezia (“Nord terra ostile”), dimostrando tutta l’incapacità della sinistra italiana a capire le dinamiche, le energie e le passioni che scuotono da molti anni l’asse che da Torino arriva fino a Trieste. La tesi è forte: la cultura politica di tutti gli esponenti della sinistra, compresa quella riformista cara all’ex ministro Bersani, resta prigioniera di un’immagine “fordista” dell’economia, tutta giocata attorno al ruolo guida della grande impresa. Per questo il mondo progressista resta sospettoso nei confronti delle aziende medie e piccole, giudicate sempre e comunque come errori storici da correggere, e di una società civile inadatta per storia e formazione a consegnare alla politica le proprie speranze. Nasce da qui, secondo Alfieri, tutta l’incomprensione che ha divaricato ancora di più i destini del Nord, percepito come ostile e spinto a una sorta di “secessione di velluto” nei fatti.



La società del rischio – Si spiega in questo modo il comportamento elettorale delle regioni settentrionali. Il politologo torinese Luca Ricolfi lo aveva capito nel suo “Le tre società”: dal Piemonte al Friuli, votano a sinistra i garantiti, a destra quella “società del rischio” i cui segni distintivi sono l’iniziativa individuale, la flessibilità, la vulnerabilità, un welfare collettivo fatto di volontariato e impresa sociale. Ecco perché la cultura del rischio e dell’imprenditorialità, così diffusa nelle nostre terre, premia da così tanti anni il centro-destra, capace in quest’ultima occasione elettorale anche di vincere la tentazione berlusconiana della politica mediatica, superando quella che Aldo Bonomi definisce “politica di sorvolo” per addentrarsi nella società della modernizzazione avanzata tipica del “capitalismo molecolare”. Questa società non è (solo) segnata dalla paura (sentimento che la politica deve comunque affrontare, senza derubricarlo schizzinosamente a nonsense impolitico, come il centro-sinistra continua a fare), ma si è nel frattempo attrezzata per competere a livello internazionale con altri territori avanzati, e chiede (con piena ragione) una politica in grado di accompagnare chi rischia e sostenere chi deve rialzarsi. Ovvero una politica che garantisca servizi di welfare efficienti, collegamenti stradali all’altezza della modernizzazione, fiere, aeroporti, invece del solito repertorio di scrollate di spalle, sorriseti di circostanza, rifiuti preconcetti, sospetti ideologici e vessazioni burocratiche.
Questa Italia, che lo stesso Ricolfi indicava essere sempre più abbandonata dalla politica, ha oggi individuato con precisione chirurgica da chi vuole essere rappresentata. Il Popolo delle Libertà e la Lega hanno l’ultima occasione per non deluderla e per evitare che la “secessione di velluto” possa diventare in futuro un problema ingovernabile.