Si può pensare di ridurre il numero degli aborti nel nostro paese? Si può immaginare una società che sappia accompagnare e sostenere la maternità, che riesca ad accogliere anche i bambini “imperfetti”, che sia capace di tessere intorno alla famiglia una rete di solidarietà? Noi ci crediamo, e ci vogliamo provare.
La relazione sulla legge 194 presentata il 22 aprile in Parlamento dal Ministro Turco conferma la tendenza a un piccolo ma costante calo degli aborti tra le donne italiane. Un’anomalia, sul piano europeo, soprattutto considerando che nel nostro paese non hanno mai attecchito i metodi anticoncezionali considerati più efficaci (per esempio la contraccezione ormonale), e che anche la cosiddetta pillola del giorno dopo non ha raggiunto alti livelli di diffusione. Il caso italiano smentisce il teorema secondo cui l’unico modo di evitare gli aborti sarebbe promuovere la contraccezione: se diamo un’occhiata ai dati francesi, inglesi o svedesi, vediamo che le politiche di distribuzione a tappeto di pillole anticoncezionali e abortive si accompagnano sorprendentemente a tassi di abortività crescenti, ben più alti dei nostri.
Prevenire non vuol dire solo distribuire pillole, ma incoraggiare una cultura dell’accoglienza, educare alla responsabilità nelle relazioni, valorizzare la maternità. In Italia gli aborti calano, sia pure lentamente, perché i rapporti familiari mantengono la propria forza, perché c’è un livello minore di disgregazione sociale, di madri sole, di disagio giovanile. Ma oltre a tenerci stretto questo patrimonio culturale e ad agire per evitare di disperderlo, possiamo fare molto di più, sul terreno della prevenzione.
Sei mesi fa Sandro Bondi ha presentato una mozione in cui chiedeva linee guida ministeriali sull’applicazione della legge 194. Non si tratta di modifiche legislative, ma di quello che su “Avvenire” ho definito un tagliando: la legge ha 30 anni, e li dimostra. Alcuni articoli non sono mai stati applicati, altri sono interpretati in modo diverso in ogni regione, altri ancora vengono sistematicamente violati. Pensiamo all’articolo 7, in cui si dice con chiarezza che non si può abortire se il feto ha «possibilità di vita autonoma», o ai primi articoli, che riguardano l’attività dei consultori. Ma anche la relazione annuale va integrata; le informazioni che il Ministero raccoglie oggi non sono sufficienti. Non si sa nulla, per esempio, sul rapporto tra i colloqui svolti nei consultori e il corrispondente numero di certificati rilasciati. Questo dato può fornire un’idea della capacità delle strutture pubbliche di proporre alle donne aiuti concreti e soluzioni ai problemi che le inducono ad interrompere la gravidanza. Nella relazione non viene mai fornito il numero di bambini nati vivi in seguito ad aborti tardivi, e sulla loro sopravvivenza. Sarebbe necessario anche verificare dopo l’aborto le diagnosi in base alle quali si ricorre all’articolo 6 (quando siano accertate «rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro che determino un grave pericolo per la salute psichica o fisica della donna»). Le donne dovrebbero essere informate sull’effettivo riscontro delle diagnosi prenatali, che in genere si basano su semplici probabilità. Così come è importante sapere quali sono le patologie fetali che fanno decidere per l’aborto, se vogliamo capire cosa fare per aiutare concretamente le famiglie ad accogliere un figlio disabile.
Combattere l’aborto è possibile, ma bisogna farlo con pazienza e tenacia, disponendosi a un lungo e noioso assedio che agisca su più fronti, e rinunciando all’idea che si tratti di una guerra lampo, una bella battaglia in campo aperto. Bisogna cominciare dalle piccole cose, per esempio da un modo diverso di raccogliere le informazioni. Su questo ci impegniamo fin da adesso, chiedendo il coinvolgimento del futuro Ministro, perché la prossima relazione fornisca al Parlamento strumenti utili per una politica che abbia come obiettivo la riduzione degli aborti e il sostegno alla maternità.



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