Quali sono gli ultimi fatti di cronaca più emblematici? Si va verso una qual sorta di “normalizzazione” del rapporto tra governo cinese e Dalai Lama?

L’offerta cinese di aprire colloqui con il Dalai Lama scompagina molte carte sul tavolo. Sul fronte interno, tibetano, isola l’ala dei tibetani più radicali, quelli che pensano a un aumento del livello di violenza per migliorare la situazione. Inoltre non indebolisce il governo di Pechino, che non tratta con il coltello al collo, avendo ripreso il controllo della situazione, arrestato i colpevoli o avendoli comunque messi in fuga. Anzi la rafforza, perché dimostra che dopo la repressione sa essere generosa, disponibile al dialogo. Infine all’estero taglia l’erba sotto i piedi a molte reazioni isteriche e concitate, perché quelli che hanno cercato di usare la situazione tibetana per mettere in cattiva luce tutta la Cina, il suo sviluppo e le olimpiadi, oggi si ritrovano più deboli: il Dalai voleva i colloqui, li ha ottenuti.



Cosa dobbiamo aspettarci da questi incontri?
Si può leggere il gesto entro due paletti. A livello minimo si può dire: è fumo negli occhi, specchietti per le allodole straniere. In realtà i colloqui naufragheranno dopo la fine delle olimpiadi e non si faranno passi avanti. Un’ipotesi di massima invece è che Pechino, davvero allarmata di quello che è successo in Tibet, troverà rapidamente, cioè nell’arco di un paio di anni, una soluzione che consenta il ritorno in Cina del Dalai Lama. In mezzo ci sono poi mille varianti. Ma anche nell’ipotesi minima si dimostra, ancora una volta, che Pechino è abile nella manipolazione e che certe reazioni occidentali di stampa che avevano puntato il dito quasi esclusivamente sulla mancanza di colloqui tra Pechino e il Dalai oggi si trovano senza argomenti. Qui si ritorna al vecchio problema che abbiamo affrontato: se si ha paura della Cina si affronti il problema di petto; girarci attorno, farsi prendere da crisi isteriche e irrazionali – oggi per il Tibet, domani chissà per cosa – peggiora solamente la situazione.
Pare che la Cina sia francamente preoccupata della propria immagine all’estero: è così?

La Cina è preoccupata e direi anche molto interessata alla sua immagine all’estero, perché da vero Stato sa che da questa immagine dipende in piccolo il suo commercio con l’estero e il suo peso politico esterno. Due cose che hanno immediate ricadute all’interno, perché il commercio porta ricchezza al Paese e il peso politico esterno si traduce in legittimazione anche interna per la classe dirigente. Solo che questa immagine esterna non si costruisce facendosi pilotare con il radiocomando degli editoriali occidentali, ma istaurando con l’esterno un rapporto dialettico che tenga conto delle critiche ma le adatti alle esigenze del Paese. In questo senso la storia tibetana molto probabilmente, alla fine, si rivelerà un regalo insperato del Dalai a Hu Jintao e una enorme sconfitta per la causa dei tibetani in esilio. In Tibet, Hu ha represso ma come minimo senza farsi sorprendere a sparare sulla folla come accadde a Tiananmen nel 1989, probabilmente, anzi, usando mezzi accettabili da molte polizie del mondo. Le proteste anti cinesi all’estero hanno acceso il nazionalismo e portato Hu a essere l’eroe sul campo per la popolazione. Oggi apre a colloqui al Dalai, quindi i critici all’esterno non possono accusarlo di ottusità politica. Dall’altra parte guardiamo alla causa tibetana: la spallata della protesta in Tibet ha unito l’opinione dei cinesi Han contro di loro, sul campo sono stati sgominati dalle forze di sicurezza che hanno occupato templi e monasteri, e la speranza di demonizzare la Cina all’esterno è stata ugualmente sconfitta perché la Cina ha aperto al Dalai. In realtà oggi il Dalai va ai colloqui con Pechino più debole che mai.



Cosa possiamo aspettarci dall’immediato futuro?

I colloqui con il Dalai non saranno facili proprio per la grande debolezza del Dalai oggi, non in grado di dominare la situazione in Tibet o i tibetani in esilio che spingono per la violenza, accolto come un principe ovunque ma non ascoltato davvero da alcuno. Pechino potrebbe e dovrebbe, secondo me, mostrarsi misericordioso, pensare che un Dalai debole, salvato da Pechino potrebbe essergli utile per ricucire la situazione tibetana. Ma in Cina c’è anche una profonda diffidenza per quest’uomo, che non è un interlocutore politico tradizionale e i cui precetti religiosi solleticano l’anima profonda cinese. Molto nei colloqui dipenderà dalla capacità del Dalai di impostarli, perché la Cina pensa di essere vincitrice su tutti i fronti e potere dettare le condizioni in maniera dura. Pechino però dovrebbe pensare a lasciare una via di uscita onorevole al Dalai per evitare altri colpi di coda impazziti. Nel lungo termine, infatti, è impossibile pensare che i tibetani smettano di essere religiosi o di credere al Dalai Lama, questo o un altro. I duri a Pechino pensano: morto questo Dalai quelli in esilio fanno il loro Dalai, che se lo tengano, e noi ci facciamo il nostro. Ma forse non è così semplice. Fra 20 anni, quando la Cina sarà più o meno la prima potenza economica mondiale e in mezzo a un delicato processo di trasformazione in democrazia compiuta, non conviene a Pechino trovarsi impelagata in una spiacevole controversia tra un Dalai in Tibet e uno fuori dal Tibet, tra il papa di Roma e quello di Avignone. Converrebbe oggi accordarsi con il Dalai per il futuro, ma se il prezzo chiesto dal Dalai è troppo alto, allora la Cina non avrà dubbi, va al confronto futuro tra Dalai e anti Dalai.

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