Il recente rapporto di Unioncamere Veneto (“Spesa pubblica e federalismo”) punta il dito contro la spesa delle nostre amministrazioni centrali e mette in evidenza come, attuando un sistema federale come quello tedesco, si otterrebbero dei grossi risparmi. Si può quindi dire che il “non federalismo” o il “federalismo incompiuto” siano un costo sia per lo Stato che per il nostro sistema economico?



Innanzitutto vorrei dire che il primo problema non è il federalismo incompiuto o non realizzato, ma è che tutto l’apparato pubblico (statale, regionale, comunale) intercetta una quota di ricchezza eccessiva (oltre il 50% del Pil). Bisogna sgonfiare questa spesa. C’è poi il problema delle risorse umane impiegate dall’apparato pubblico – troppe e poco efficienti – la cui soluzione però non risiede tanto nella loro redistribuzione dal livello centrale a quello locale, quanto in una revisione di alcuni indirizzi di fondo cui si ispira oggi l’organizzazione della nostra società. Se non si affrontano questi nodi alla radice, non si risolvono né il problema dell’eccesso di personale pubblico, né il problema della sua efficiente distribuzione sul territorio. Faccio due esempi: uno è la scuola, l’altro il modo in cui è stato riformato il titolo V della Costituzione. Alcune funzioni di pubblica utilità, come la scuola, sono gestite oggi praticamente in toto dallo Stato secondo criteri burocratici, mentre potrebbero essere meglio gestite in un regime che si potrebbe dire più sussidiario, cioè con il coinvolgimento di soggetti non statali o regionali. Per esempio, se nella scuola si affermasse il principio della libertà di formazione ed educazione, se si allargassero gli spazi di partecipazione di scuole libere in regime di concorrenza, la quota di risorse gestite dal pubblico probabilmente scenderebbe e soprattutto scenderebbe la quota di personale imputabile all’amministrazione statale. E questo vale per tanti altri ambiti dell’organizzazione della società. Secondo esempio, l’assetto costituzionale delle competenze statali e locali. Un miglior rapporto tra risorse pubbliche e personale chiamato a gestirle, è sicuramente auspicabile. Ma vanno fatte due precisazioni. Prima di tutto, la causa dell’attuale squilibrio tra risorse e personale centrale e risorse e personale locale è determinato dal modo in cui è scritto il Titolo V della Costituzione e, in particolare, dal fatto che le competenze concorrenti tra Stato e Regioni sono troppe. Questo implica che le Regioni da un lato devono “gonfiare” la spesa e devono cercare nuove risorse umane, dall’altro che lo Stato non è legittimato a svuotare le sue competenze, e il personale per farvi fronte, perché formalmente è ancora in parte competente su molti ambiti. La seconda precisazione è che lo studio di Unioncamere Veneto considera correttamente i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ma non tutto ciò che sta a margine di esse, come le società partecipate dai soggetti pubblici regionali e locali. Un numero nutrito di soggetti che determinano una quota di spesa e una crescita di personale entrambe di natura “sostanzialmente” pubblica (anche se si tratta di soggetti di diritto privato e di contratti di lavoro anch’essi privati). Per quanto riguarda le imprese, va detto che c’è un federalismo che produce certamente un vantaggio e un altro che altrettanto certamente genera problemi e costi aggiuntivi. È un vantaggio quando avvicina i punti decisionali ai punti dove si fanno le operazioni effettive, cioè quando le scelte politiche vengono fatte ai livelli più vicini al territorio dove operano le imprese. È un problema quando si propone di diversificare le procedure attraverso le quali le imprese dialogano con la pubblica amministrazione locale. Per esempio, se per ogni Regione ci fossero diverse procedure per aprire un’impresa o per realizzare un investimento, è evidente che questo sarebbe un costo aggiuntivo per quelle aziende che hanno più sedi sul territorio. Per non parlare degli investitori esteri.



Come si può evitare che il federalismo, in particolare quello fiscale, diventi uno “slogan politico” o che sia “ideologizzato” come una misura favorevole solo al Nord del paese?

Il federalismo fiscale, il fatto cioè che le risorse restino il più possibile agganciate al territorio, è positivo. Vanno però evidenziati due elementi per evitare che si risolva in un’ideologia del federalismo. Il primo è che il nostro è un paese che presenta fortissime differenze territoriali, in termini di ricchezza prodotta e di creazione di reddito. L’Italia è il paese europeo con le più alte sperequazioni territoriali. Inevitabilmente il federalismo fiscale deve quindi sposarsi con una logica di solidarietà. Bisogna fare in modo che ci sia un flusso di risorse che passa dalle Regioni più ricche a quelle più povere. L’importante è che sia trasparente. Cosa che l’odierno sistema di perequazione non garantisce. Il secondo elemento è che abbiamo una Regione come la Lombardia che ha un peso economico, un numero di abitanti, e una capacità di produrre Pil superiore a quella di molti stati dell’Ue. Allo stesso tempo, ci sono regioni come la Basilicata o il Molise che sono poco più di distretti urbani non solo come abitanti, ma anche come capacità di produrre ricchezza. Per costruire un federalismo fiscale che sia efficiente occorre quindi creare delle dimensioni territoriali che consentano ai livelli regionali di avvicinarsi ad avere una possibile autonomia finanziaria e fiscale. Le Regioni troppo piccole non potranno farcela mai: occorre che si accorpino per realizzare un federalismo fiscale sostenibile. In Italia, le forze vitali dell’impresa e della società hanno saputo colmare la sclerosi di un sistema inefficiente.



Questa è autentica sussidiarietà?

Assolutamente sì, anzi direi che è di più: è il protagonismo della persona, dell’imprenditore, di chi opera. Il paradosso del nostro Paese che c’è stato nel passato, e che ha ripreso ad esserci anche se in misura più lieve, è quell’esperienza che va sotto il nome di “miracolo italiano”: un paese che senza risorse, senza energie, tranne la capacità di lavoro delle persone, è riuscito a crescere economicamente in misura rilevantissima, fino a diventare uno dei paesi più sviluppati al mondo, pur avendo questo peso burocratico alle spalle.

“Attuare un vero federalismo” potrebbe essere lo slogan della prossima legislatura. Cosa andrebbe fatto subito?

Prima di tutto una ripartizione delle competenze più corretta, adeguata, meno “pasticciona”, perché ci sono competenze che non possono non essere statali (per esempio, le infrastrutture o la disciplina degli ordini professionali), perché su questo al momento c’è troppa confusione. Poi, con le avvertenze che ho segnalato in precedenza, occorrerebbe sviluppare un federalismo fiscale realmente sostenibile. Infine, occorre più sussidiarietà: il coinvolgimento di soggetti non pubblici, che provengano dalla società civile, nella gestione di funzioni che sono pubbliche di natura.

Per migliorare l’efficienza pubblica è sufficiente delegificare?

Ritengo che la delegificazione “in sé” non sia realmente utile, perché che vuol dire trasportare le norme da un veicolo che è legge a un altro veicolo che è un decreto. E molto spesso i decreti sono molto più complicati da fare e da cambiare rispetto alle leggi. Ridurre il numero delle leggi può essere più utile: è un operazione complicata e non facile, ma ci sono Regioni che l’hanno realizzata. Per esempio, la Lombardia ha ridotto enormemente il numero delle leggi realizzando dei testi unici. Certo questa non è la panacea, ma sicuramente è un contributo concreto.

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