Professor D’Agostino, dalla lettura delle modifiche del ministro Turco alle linee guida per l’applicazione della legge 40 emergono due sostanziali novità: l’accesso alla tecnica di fecondazione assistita da parte di persone sieropositive e l’abrogazione delle limitazioni dell’indagine sugli embrioni a livello osservazionale. Quali sono i problemi legati a queste due novità?

C’è anche una terza novità, che non solleva però particolari problemi: il rafforzamento dell’assistenza psicologica alla coppia che chiede la fecondazione assistita. Questo è un discorso che si rivela saggio: sappiamo bene come tutte le coppie che chiedono la fecondazione assistita vivano con molta esasperazione la loro infertilità; perciò è giusto che ricevano un aiuto psicologico. Le altre novità sono invece, a mio avviso, negative. La prima, per usare un’espressione che non compare nelle linee guida, ma viene usata dal ministro Livia Turco nella dichiarazione che le accompagna, introduce la categoria della “sterilità di fatto”: si fa riferimento a quegli uomini che sono portatori di patologie sessualmente trasmissibili, quindi che possono contagiare i partner, ma sopratutto i figli che nascono dal rapporto. Si sostiene che, poiché queste persone dovrebbero astenersi dal mettere al mondo figli, nei limiti in cui avessero consapevolezza del loro problema, andrebbero ritenute sterili di fatto. Quindi potrebbero ricorrere alla fecondazione assistita per superare questa loro condizione di sterilità fattuale. Si prospettano due diversi problemi. Primo: non è ben chiaro in che modo la fecondazione assistita possa risolvere simili situazioni. Occorre ipotizzare la possibilità di creare embrioni in provetta e trasferire in utero solo embrioni a carico dei quali sia accertato che la malattia genetica non è stata trasmessa. Ciò però rientra nell’ambito dell’eugenetica, che peraltro la legge vieta. Questo è il caso estremo. Ci sarebbe una seconda ipotesi: il seme dell’uomo portatore di patologia potrebbe essere, come si dice in gergo, “lavato”, cioè depurato dai virus e quindi diventare sicuro. Questo richiederebbe poi l’inseminazione artificiale. Anche in questa ipotesi più lieve resta però il fatto che uno dei principi che stanno alla base della legge sostiene che si ricorra alla fecondazione assistita solo come terapia della sterilità: la fattispecie a cui fa riferimento il Ministro Turco non è qualificabile come sterilità, la stessa espressione “sterilità di fatto” risulta ambigua, biologicamente non ha alcun significato perchè queste persone sono normalmente fertili. Giuridicamente è un’espressione molto ambigua, perchè allora potremmo sostenere che sono parimenti sterili di fatto tutti quegli uomini che non hanno una partner femminile e quindi non possono mettere al mondo un figlio: potrebbero sostenere di essere sterili di fatto e quindi chiedere alla legge di andare incontro alla loro sterilità. Ovviamente così entreremmo in una serie di paradossi a cui però le linee guida così formulate aprono un varco. La legge sulla fecondazione assistita ha compiuto una scelta molto chiara: la fecondazione assistita è una terapia contro la sterilità. Se si intende cambiare la legge, la si cambi pure, ma non la si manipoli attraverso linee guida che dovrebbero rispettarne sia la lettera che lo spirito.



Pensa che l’impianto generale delle linee guida sia rispettoso dello spirito della legge 40 e dell’esito del referendum?

Riguardo ai due punti su cui ci siamo soffermati la risposta è negativa. Per quanto riguarda gli altri aspetti, anche quello relativo all’assistenza psicologica, la risposta è sì. Sicuramente i primi due elementi sono gravi. In particolare l’abolizione della natura osservazionale delle indagini sull’embrione elimina una serie di indicazioni contenute nelle vecchie linee guida, messe proprio a tutela del nascituro. Poiché questa norma è stata cancellata, tutte le indagini a carico degli embrioni dovrebbero essere lecite e soprattutto dovrebbe essere leciti i test genetici. I test genetici sono ad alto rischio per la vita embrionale, mentre la diagnosi osservazionale non comporta rischi perché, di fatto, si tratta di mettere gli embrioni sotto il microscopio semplicemente per osservarli. I test genetici, invece, si svolgono prelevando una o più cellule dall’embrione per sottoporle ad analisi genetiche: questa pratica ha una percentuale di rischio e in un numero non raro di casi porta la morte degli embrioni. Questo è contro lo spirito della legge, che vuole garantire la nascita di tutti gli embrioni procreati in vitro. Un’ulteriore considerazione: una volta fatti i test genetici si vanifica l’indicazione, che pure formalmente rimane nelle linee guida, secondo la quale non si possono fare indagini prenatali a fini eugenetici. Questa dichiarazione rimane, ma diventa un flatus vocis: se un medico svolge un test genetico e riscontra un’anomalia a carico dell’embrione, anche un’anomalia pienamente compatibile con la vita, o addirittura una non-anomalia come l’indicazione del sesso dell’embrione, e se quindi la donna viene ad apprendere che l’embrione è del sesso che non desidera o comunque presenta un’anomalia di cui ella non si vuole far carico, proibirà, e può farlo, l’impianto degli embrioni nel proprio utero. Ma in questo modo si verifica obiettivamente una pratica di selezione eugenetica dei nascituri. Ipotizzando che siano creati in provetta tre embrioni, quando il medico scopre che un embrione è alterato, questo verrà escluso. Si vìola lo spirito della legge che indica che tutti gli embrioni che vengono generati in provetta vanno, almeno in linea di principio, tranne in casi eccezionali, inseriti nell’utero della donna.



Si riscontra quindi una grave conflittualità tra la tutela sancita dalla legge 40 del diritto di nascita per il concepito e una dinamica di diagnosi prenatale di questo tipo, è esatto?

La legge 40 da una parte dice che tutti gli embrioni vanno trasferiti in utero, ma non dice che questo trasferimento non può essere coercitivo, come non può essere tale nessuna pratica medica. In teoria la donna potrebbe far produrre embrioni in vitro e decidere dopo se vuole l’impianto. E’ un’ipotesi assurda, perchè la gravidanza è ciò che la donna desidera, a meno che i test genetici possano dare ragioni per non volere l’impianto degli embrioni. Le ragioni possono essere umanamente comprensibili qualora la donna venisse a sapere che l’embrione è fortemente alterato dal punto di vista genetico. Ma in merito all’individuazione del sesso del nascituro non esiste nessuna giustificazione perchè la donna rifiuti l’impianto. Quando la legge proibiva le indagini pre-impianto questo rischio non si correva; ora che le linee guida consentono di svolgere indagini genetiche prima dell’impianto ci sarà la selezione anticipata del sesso dei nascituri.

Leggi anche

MANOVRA & POLITICA/ Prudenza e stabilità bastano ad affrontare le incognite del 2025?