Per meglio capire la situazione che si vive a Beruit, ilsussidiario.net ha intervistato Marco Perini, rappresentante dell’Ong Avsi che opera in Libano.
Dopo gli ultimi scontri a Beirut le agenzie parlano di almeno una decina di morti, riferiscono di una situazione di calma apparente e di una città presidiata dai militari. Saprebbe spiegarci la situazione?
Il tutto ha avuto inizio nel momento in cui il consiglio dei ministri del governo Siniora ha preso due decisioni: la prima di aprire un’inchiesta su una presunta rete parallela telefonica di Hezbollah, e la seconda di sostituire il responsabile della sicurezza dell’aeroporto di Beirut perché sarebbe vicino alle posizioni di Hezbollah o dell’altro movimento sciita di opposizione, Hamal.
Questo atto ha fatto salire la tensione e Hezbollah ha vissuto quella decisione come atto ostile nei suoi confronti: sapete da anni – è come se avesse detto Hezbollah al governo – che noi abbiamo questa rete di sicurezza che ci garantisce di poter comunicare tra militanti della resistenza al riparo da Israele. Prima questa rete andava bene ma ora non più, perché avete subito le pressioni di Condoleeza Rice.
Questo è l’elemento che ha fatto scatenare una settimana fa le prime tensioni, fino a due giorni fa, quando sono scoppiati scontri violenti condotti anche con armi pesanti nei quartieri controllati dai Sunniti, che al 90% fanno riferimento a Hariri e quindi alla maggioranza di governo. Di conseguenza gli Hezbollah sciiti hanno preso le armi e sono andati a conquistare i quartieri a prevalenza sunniti nella parte sud e ovest di Beirut. Stamattina, 11 maggio, questi quartieri sono sotto il controllo di Hezbollah che sta lasciando all’esercito il compito. Dopo due giorni in cui ci sono stati decine di morti, centinaia di feriti e molti danni materiali, questa mattina a Beirut regna una calma apparente che sembra preludere a qualcosa di nuovo che potrebbe accadere, ma che nessuno sa dire cosa sarà.
Lei lavora per una Ong. Questi scontri hanno cambiato qualcosa per il lavoro delle Ong presenti sul territorio libanese?
Direi che due sono gli effetti di questa crisi: un effetto immediato, come quello che stiamo vivendo in questi giorni, cioè le attività si fermano e ci sono problemi di collegamento nel paese. In questo momento, per esempio, noi abbiamo delle attività avviate sia al sud del paese che nella valle della Bekaa, ma non possiamo andarci perché le strade sono chiuse e controllate dai miliziani di una o dell’altra parte, o dall’esercito, e comunque sono insicure. Come conseguenza i nostri uffici periferici hanno problemi di collegamento e di comunicazione e quindi di sicurezza. C’è poi un secondo effetto secondo me più importante. Credo che la grande sfida per noi in questo paese – in cui l’obiettivo delle giovani generazioni è di andare a lavorare all’estero o di lasciare il paese – sia quella di testimoniare con le nostre opere un’amicizia, una fiducia, una speranza possibile. Quando succedono fatti come quelli recenti ci troviamo di fronte a persone che ci dicono: ecco, vedete, voi qui fate progetti di sviluppo, lavorate in vista del domani etc. ma qui un futuro non c’è.
Ho già avuto modo di vivere questa situazione nel sud del Libano, al confine con Israele, dove su una piana incolta stiamo lavorando ad un sistema irriguo, che può funzionare solo se musulmani e cristiani collaborano nella gestione del sistema. È un’opera che richiede un lavoro strutturale e di management molto complesso e che coinvolge due comunità che fanno fatica a convivere. Per di più siamo in una zona al confine con Israele, dove circa 8 mesi fa ci fu un attentato contro un contingente dell’Unifil in cui morirono 6 militari spagnoli. I giorni successivi i contadini ci dicevano: vedete, voi fate tutto questo con grande sforzo ma le bombe o i carri armati di Israele possono superare in qualsiasi momento il confine e distruggere tutto. Cristiani o sciiti hezbollah possono prendere la supremazia nella zona ed ecco che tutto questo non serve più a nulla.
Ebbene, in un paese da così tanto tempo in guerra credo che sia questa la sfida più difficile: combattere questa perdita di fiducia. Trovo che tantissimi nostri colleghi, beneficiari o persone che hanno lo stesso nostro modo di vivere, abbiano perso la fiducia in un futuro normale. Lo conferma quello che sentiamo parlando con le persone in questi giorni e in queste ultime ore: che la politica è ben lontana dal bisogno della gente comune. Che chiede di poter vivere in un paese normale, in uno Stato con politiche che funzionano. Quello che non sta succedendo in Libano oggi.
Lei ha citato la missione Unifil. Le agenzie riportano che dove c’è Unifil la situazione è più vivibile: è così? Come si può portare avanti in un contesto così instabile una missione di cooperazione?
La presenza di Unifil è sicuramente importante ed è un fattore di stabilità, su questo non c’è dubbio. Nel sud del Libano grazie a Unifil – che è presente da Beirut fin verso Israele – a parte alcuni episodi il paese ha attraversato una fase di calma, un periodo di sicurezza. Non a caso in queste ore gli scontri principali avvengono nelle zone in cui Unifil non c’è. Questo è un indubbio merito di Unifil, a cui si aggiunge quello di aver creato un cuscinetto tra Israele e il Libano degli Hezbollah. È una missione che la gente vive positivamente e i militari sono ben voluti, al di là di particolari circostanze di tensione e crisi come è accaduto per i caschi blu spagnoli.
Per noi lavorare in questa situazione di crisi è una sfida quotidiana, con ragioni profonde. Questo paese è l’esempio storico di una convivenza possibile tra un mondo cristiano e un mondo musulmano e questo per noi è un valore assoluto, al quale val la pena di dedicare tutto il nostro impegno. Certo non è facile. Perché se al sud c’è Israele, con tutti i problemi storici che questo significa, in Libano vivono diverse comunità religiose che sono un valore ma che rappresentano anche un problema: per esempio il 10% della popolazione è fatto da rifugiati palestinesi che hanno uno status autonomo all’interno del paese. Poi il Libano si trova a fare da cuscinetto tra Sira e Israele perché a nord confina con la Siria, nemico storico dello Stato ebraico. È l’ultimo paese testimone di una convivenza possibile: oggi in Libano musulmani e cristiani vivono insieme. È una convivenza che purtroppo oggi viene minata da fatti gravi come quelli di questi giorni. Questo è il primo problema, ma è anche la ragione per cui vale la pena rimanere qui.
Si sa che sono stati evacuati italiani da Beirut ovest e il ministero degli Esteri parla di un ponte per agevolarne il rientro. È possibile, a suo avviso, che la situazione degeneri ulteriormente? Lei personalmente vive momenti di paura? Pensate di rientrare o di rimanere in Libano?
Io credo che la possibilità di rimanere ci sia e che questo vada fatto fino a che, naturalmente, non diventi una scelta incosciente. Cosa succederà nelle prossime ore non si può sapere. Gli Hezbollah sciiti controllano una zona della città che fino all’altro ieri era controllata dai musulmani sunniti; ora stiamo vivendo momenti di relativa calma, nonostante ci siano focolai di scontri un po’ ovunque nel paese, ma meno dei giorni scorsi. Come ho detto, è un momento di grande incertezza. È chiaro che nella complicata questione libanese contano molto anche i ministeri degli Esteri di altri paesi – Israele e la Siria e quindi Stati Uniti e Iran, per essere chiari. Se la situazione dovesse aggravarsi, prenderemo in considerazione l’ipotesi di lasciare il paese, cosa che per il momento ci sentiamo di escludere. Per quanto riguarda gli italiani che sono stati evacuati, abitavano nella zona in cui nelle ultime 48 ore ci sono stati gli scontri e sono stati portati in zone più sicure. È una situazione a macchia di leopardo. Noi viviamo in un quartiere cristiano e queste tensioni le conosciamo, anche se non siamo stati coinvolti direttamente.