Sulla rue Hamra, Imad spazza i vetri infranti del suo negozio, raccoglie suole e tomaie carbonizzate tra la caligine del suo negozio. Vendeva scarpe, ma i quattro giorni di combattimenti gli hanno lasciato solo quelle che indossa. Giù da Paul, all’inizio di Ghemmayze Road, stranieri e libanesi dal dollaro facile fanno colazione con cornetti, spremute e “croque monsieur”. Intorno, i blindati dell’esercito e soldati separano quest’oasi di benessere e allegria da una città mesta e deserta. Hezbollah e i suoi ascari se ne sono andati, hanno lasciato la città scortati dall’Armée, ma nessuno s’illude. «È solo finito un capitolo – dice lo sconsolato Imad raccogliendo l’ennesima scarpa flambé – ma tra poco si rincomincia nulla è stato risolto: Hezbollah ha ancora le armi e il governo continua a non contare nulla». Anzi conta ancora meno. «È stata una vergogna, non capisco perché il primo ministro Siniora ha scelto di farsi umiliare così – chiosa la cristiana maronita Maria Hannoun tra una spremuta e l’altra -. Sanno di non aver la forza di contrapporsi ad Hezbollah: quelli tengono testa agli israeliani, come speravano di piegarli? Adesso andrà ancora peggio. Siniora sarà ancora più prigioniero. Non solo si è fatto umiliare, ma ha anche dimostrato che l’esercito non è in grado o non vuole difenderlo». Le voci della strada in questa capitale, abituata da 30 anni a far i conti con la politica delle armi, raramente sbagliano.
La scomparsa dei posti di blocco, l’uscita dalla città dei guerriglieri sciiti scortati dall’Armée è sono solo l’inizio di un nuovo capitolo dell’intricata e irrisolvibile saga iniziata nel novembre del 2006 con l’uscita dall’esecutivo dei ministri fedeli ad Hezbollah e alle fazioni filo siriane. Da allora Beirut e il Libano vivono in stato d’assedio, prigionieri del ricatto della cosiddetta opposizione accampata con tende e centinaia di militanti nel cuore della capitale. Le condizioni poste dal segretario generale di Hasan Nasrallah per mettere fine alla paralisi della capitale e riaprire l’aeroporto bloccato da quasi una settimana non ammettono deroghe. Il Partito di Dio pretende le dimissioni di Siniora, la creazione di un nuovo governo di transizione, il controllo di un numero di ministeri sufficiente a garantirgli il diritto di veto, l’approvazione di una nuova legge elettorale e il ritorno alle urne. L’opposizione filo-siriana guidata da Nasrallah punta insomma a spazzare via la coalizione di governo vincitrice delle elezioni del 2005 e ritornare alla situazione antecedente al ritiro siriano quando la Siria occupava il paese, il Partito di Dio e i suoi padrini iraniani regnavano dalla valle della Bekaà al sud e l’esecutivo riscriveva i decreti-velina dettati da Damasco.
Il diktat del governo Siniora che pretendeva le dimissioni del generale Wafiq Shqeir, il responsabile della sicurezza dell’aeroporto legato a doppio filo con Hezbollah e l’apertura di un’inchiesta sulla rete telefonica clandestina gestita dal Partito di Dio, è insomma l’ultima fase dello scontro apertosi nel novembre del 2006. E si conclude con una sonora sconfitta del governo costretto dall’offensiva armata dell’opposizione a ritornare sui propri passi.
Lo scontro tra Siniora e Nasrallah è però solo la rappresentazione su scala ridotta delle divisioni che lacerano la regione mediorientale. I miliziani sciiti arrivati ad imporre il nuove ordine nel cuore di Beirut sono la punta di lancia dell’offensiva lanciata su scala regionale da Teheran in contrapposizione con l’Arabia Saudita, la madrina del mondo sunnita e grande protettrice di Fouad Siniora. Da un altro punto di vista il conflitto libanese è anche la rappresentazione su scala locale dello scontro tra Stati Uniti e Tehran. La sfida tra Sinora e Nasrallah s’iscrive dunque nel conflitto che contrappone Teheran e Siria da una parte e Stati Uniti, Arabia Saudita dall’altra. Con l’aggiunta, non indifferente nel caso libanese, dell’ex potenza coloniale francese sempre attenta ai destini di Beirut e del governo Siniora.