Il modello-fondazione (tra l’altro legittimato in Italia dalle sentenze dalla Corte costituzionale sulle Fondazioni bancarie come «organizzatrici delle libertà sociali») è ormai largamente affermato nel mondo: grandi statisti non più in servizio attivo (da Clinton a Blair ad Aznar) mantengono un ruolo nella produzione di cultura politico-sociale attraverso centri-studi non profit. I percorsi di questi enti s’intersecano con un’altra potente corrente: le ricchissime fondazioni gratmaking finanziate da grandi imprese o tycoons (da Bill Gates a Warren Buffet a George Soros).
In Italia si contano oltre 3.000 fondazioni, estremamente differenti tra loro per scopi, patrimonio e attività. Negli ultimi anni sono nate e si sono sviluppate fondazioni di “cultura politica”. Alcune tra queste hanno al vertice politici attualmente attivi nella vita politica italiana. Qual è il ruolo che si prefiggono e quale il rapporto con la politica partitica?



Abbiamo rivolto alcune domande ai rappresentanti delle principali tra queste fondazioni: Andrea Peruzy (Fondazione Italianieuropei), Alessandro Voglino (Fondazione Nuova Italia), Stefano Fassina (Nuova economia, nuova società – Nens), Giuseppe Lanzilotta (Fondazione Magna Carta) e Alessandra Servidori (Fondazione Craxi/Giovane Italia)



Il PdL – principale partito della nuova maggioranza – è un partito leaderistico (che esprime un governo leaderistico) che non ha organizzazione e governance (nessuno ricorda congressi o momenti regolari di democrazia interna). Il neonato PD è – secondo il suo segretario Veltroni – un partito “liquido”; mentre un’importante esponente del suo partito (D’Alema) ha affermato che il PD sarà una «costellazione di centri studi, fondazioni ecc.». La forma-partito pare evolvere concretamente, al passo degli sforzi di riformare le istituzioni: siete d’accordo che i “vecchi partiti” radicati con le loro strutture nel sociale sono superati?

Andrea Peruzy (Italianieuropei): Credo che i partiti come strumento di mediazione tra l’opinione pubblica e le istituzioni possano ancora svolgere un ruolo essenziale. Non credo che Fondazioni o centri di ricerca possano sostituirsi ad essi. Semplicemente, occorre intendersi su un nuovo modello di partito: i partiti, infatti, si devono adattare ad un mondo che è profondamente cambiato.
Credo, sì, che il partito abbia bisogno ancora oggi di essere radicato nel territorio, come lo erano in passato; però accanto a questo esistono – e devono essere valorizzati – centri di ricerca, di cultura politica e, soprattutto, di formazione politica, che devono essere messi in rete e costituire un network. Il compito di questi centri deve essere quello di elaborare pensiero e contribuire a dare un profilo e un’identità da diffondere attraverso documenti, libri, papers, a coloro i quali hanno il compito di tradurli, in una fase successiva, in proposte di legge.



Alessandro Voglino (Nuova Italia): Personalmente non credo a una sorta di totale avvento della “sussidiarietà in politica”. Voglio dire che l’attuale crisi di rappresentanza di molte tradizionali istituzioni – a cominciare dai partiti e dai sindacati – sicuramente esige una diversa articolazione degli interessi e dei corpi sociali e quindi lo sviluppo di una architettura della partecipazione politica che passi anche attraverso associazioni, strutture di volontariato, centri di studio e di elaborazione, ma che la doppia esigenza di capillarità nella presenza territoriale e coordinamento, unita a quella di dare visibilità e tangibilità a una unitarietà di appartenenza, richiederà comunque e sempre, al di sopra di tutto ciò, la cupola di una “forma partito”.
In sintesi, dunque, in un momento di identità deboli e appartenenze quelle sì “liquide”, ritengo che le Fondazioni di cultura politica possano e debbano svolgere un ruolo essenziale, innanzitutto dando spessore “scientifico” alla riflessione su un groviglio di temi inestricabilmente connessi al perseguimento del bene comune e – in secondo luogo – concorrendo a dare autenticità e dignità di costume a una vera dialettica sui grandi temi della politica, che non si perda dietro il rifiuto delle posizioni divergenti, ma tenda a riconoscere, nelle proposte di tutti, ciò che davvero è frutto di una sincera ricerca indirizzata all’interesse collettivo, da ciò che è solo strumentale a un interesse di parte.
In questo senso si rifonderebbe la prassi politica italiana secondo parametri tipici delle democrazie mature e si sposterebbe il livello del dibattito dai titoli dei giornali alle analisi vere dei problemi.

Stefano Fassina (Nens): Non c’è dubbio che la forma-partito debba evolvere, non solo in relazione ai cambiamenti istituzionali, ma anche in presa diretta con il profondi mutamenti economici, sociali, culturali. I partiti del XXI secolo, per dare sostanza alla democrazia, devono continuare ad avere o, meglio, ritrovare radicamento sociale e territoriale. Devono sintetizzare ed esprimere una cultura politica autonoma, altrimenti diventano subalterni alle mode del tempo e agli interessi corporativi più forti e perdono la capacità di affermare una visione di interesse generale. Le fondazioni di cultura politica sono, in tale quadro, essenziali per offrire ai partiti politici di riferimento i prodotti culturali da filtrare e sintetizzare, frutto di una ricerca aperta, sistematica, partecipata da competenze tecniche di qualità e di una discussione non assillata dall’agenda politica quotidiana.

Giuseppe Lanzilotta (Magna Carta): La fine di partiti storici come DC e PCI ha prodotto, nel nostro Paese, una lunga transizione per molti aspetti ancora in atto. Il crollo della prima repubblica – ce ne accorgiamo oggi a distanza di anni – ha prodotto come conseguenza la limitazione della capacità “elaborativa” delle strutture tradizionali dell’organizzazione partitica sopravvissute. Al cospetto dei grandi apparati di ieri l’organizzazione partitica di oggi sembra aver, in parte, abdicato a gran parte della propria funzione progettuale, per incamminarsi sulla strada della trasformazione in grandi macchine “da campagna elettorale”, inseguendo un’ideale traccia segnata dalla tradizione statunitense. Ed è stata questa inconsapevole scelta che ha prodotto, quasi per genesi spontanea, la nascita in Italia dei primi think tanks, sull’esempio della tradizione americana. Pensatoi autonomi dai partiti, che però non temono di “compromettersi” con la politica, con la missione di fornire proposte di riforma, progetti ed idee da offrire al “mercato” della politica e al dibattito culturale. Per questa ragione, le fondazioni di cultura politica (il termine anglosassone think tank è però più calzante nel definire queste realtà) hanno nel sistema politico italiano una propria peculiarità solo se distinte dai partiti, ma non in contrapposizione a essi. Capaci, le fondazioni, di aggiungere “sostanza” alle eventuali proposte politiche dei partiti non potranno subentrare ad essi sia nella ramificazione territoriale, che nella traduzione “politica” di proposte complesse. La ragione è semplice. Il think tank può essere, in quest’ottica, descritto come l’agente contaminatore del partito e non il suo sostituto.

Alessandra Servidori (Giovane Italia): Siamo ancora lontani da una evoluzione della forma partito infatti il risultato elettorale ci dice che i due “nuovi partiti”, Pdl e Pd, che avrebbero dovuto ridurre al bipartitismo il nostro sistema politico, sono puramente la somma dei voti che avevano le forze che li hanno composti, mentre i veri vincitori sono Lega e Idv, i due partiti che hanno cavalcato l’ondata di anti-politica. Quindi c’è ancora molta strada da percorre e questa legislatura deve porsi l’obiettivo di assestare l’intero sistema, cercando di imboccare la strada di una vera e propria fase costituente per creare le condizioni di rispondere al Paese che chiede una governance della rappresentanza vera dei meriti e dei bisogni del popolo italiano. Dunque sia la maggioranza che la minoranza hanno l’obbligo di trovare le condizioni di dialogo costruttivo anche sulle nuove forme di rappresentanza politica e sociale. Attenzione dunque ai vari centri studi come “pensatoi” alternativi ai luoghi tradizionali della politica. Le Fondazioni danno un contributo fondamentale sui temi del welfare collegati allo sviluppo e all’evoluzione dei regimi democratici, impegnati non solo a combattere l’esclusione sociale ma anche a dare risposte alla crescente richiesta di eguaglianza sostanziale sul piano socio-economico, nella consapevolezza che le diseguaglianze sociali si ergono di fatto a barriera insuperabile per il pieno godimento dei diritti politici e civili che lo Stato democratico riconosce, in egual misura, a tutti i cittadini. Ed è proprio la consapevolezza dell’importanza del pieno godimento dei diritti sociali nel riconoscimento di una condizione piena di cittadinanza a dare centralità, anche nel campo della dottrina, allo studio dei sistemi di sicurezza sociale; ed è qui che le Fondazioni entrano a pieno titolo con la loro dote, in una evoluzione del sistema integrato pubblico/privato per il diritto dei cittadini a servizi e prestazioni per la realizzazione dei quali occorre combinare in modo efficace risorse umane ed economiche. In sostanza, i diritti sociali camminano inevitabilmente sul tapis roulant di un ordinato sviluppo di quegli elementi socio-economici che connotano la vita di una comunità organizzata che sa rinnovarsi anche nel dotarsi di nuovi strumenti.

Non c’è però il rischio che le Fondazioni rinnovino su un’altra dimensione il “professionismo della politica”, una “impar condicio” legata ai finanziamenti, un distacco strutturale tra lavoro di analisi e progetto e problemi quotidiani delle persone?

Peruzy (Italianieuropei): Non credo che esista questo rischio, per i motivi che ho appena detto. Sia Fondazioni che partiti sono necessari e costituiscono insieme due anelli di una stessa “filiera produttiva”, in cui le Fondazioni elaborano il pensiero, producono documenti, ne discutono con esponenti politici, parlamentari, chi ha responsabilità di governo, che a loro volta li traducono in proposte concrete. Non si può quindi parlare di una sostituzione, quanto piuttosto di un rapporto di integrazione, una complementarietà.
Ciò che è importante sottolineare oggi è la necessità di costruire un partito moderno, che sia in grado di dialogare con la società attuale, profondamente diversa da quella di trent’anni fa. A questo proposito, una funzione peculiare delle Fondazioni e dei nuovi partiti insieme è di selezionare e formare una nuova classe dirigente, individuare persone capaci di presentarsi alle elezioni ed ottenere buoni risultati proprio perché capaci di rappresentare e interpretare istanze e interessi legittimi provenienti dalla società civile.

Voglino (Nuova Italia): Il rischio c’è sempre ed è destinato a crescere quanto più le Fondazioni di cultura politica diventeranno ingranaggio e snodo essenziale di una trasparenza dei finanziamenti alla politica, anch’essa in linea con i parametri delle democrazie mature.
Tuttavia, proprio perché non vedo il lavoro di queste Fondazioni mai sganciato dal legame organico con diverse “forme partito” e mai relegato alle astrattezze dell’accademia, ritengo che in definitiva il loro lavoro sarebbe puntualmente e periodicamente sottoposto al vaglio popolare attraverso il gradimento o il rigetto – con il voto – dei programmi riconducibili a uno o più di questi “think tank”.
Insomma, non credo che dopo la vasta popolarità di solo un paio di anni fa, le strutture e gli uomini di punta del pensiero “neocon” negli Stati Uniti vivrebbero un così consistente calo di consenso da parte della pubblica opinione, se quest’ultima non avesse – correttamente – individuato e compreso dove stanno le responsabilità – in termini di analisi e di proposta politica – della fallimentare politica estera e di potenza di Bush.

Fassina (Nens): Il rischio è fortissimo. La condizione per minimizzarlo e rendere efficace la divisione del lavoro tra partiti (policy making e selezione delle classi dirigenti) e fondazioni (elaborazione culturale e formazione politica) è la completa osmosi tra i due ambiti, pur formalmente e sostanzialmente indipendenti. I partiti devono assumere e “filtrare” i risultati del lavoro delle fondazioni nell’attività di policy making ed “affidare” alle fondazioni la formazione delle loro classi dirigenti. Le fondazioni devono costruire il loro piano di lavoro in concorso con la direzione di marcia definita dai partiti e coinvolgere sistematicamente i policy makers nel lavoro culturale.

Lanzilotta (Magna Carta): Il sistema dei partiti si evolve, muta, ma non scompare. Di fatto i “vecchi partiti” non esistono più, esiste però un nuovo concetto di partito che non esclude, anzi si giova di un rapporto osmotico con la propria area culturale, senza che ciò comporti il rischio di un nuovo “professionismo della politica” proprio in virtù della specificità del ruolo delle fondazioni. Compete, infatti, alla politica, e per naturale derivazione, ai partiti rendersi artefici di quella funzione di sintesi tra bisogni dei cittadini e strumenti per soddisfarli.

Servidori (Giovane Italia): Per la sua influenza sulla qualità della vita dei cittadini e dei lavoratori, non può non preoccupare il progressivo manifestarsi di evidenti processi di crisi strutturali dei modelli finora sviluppati e maturi di protezione sociale, in conseguenza di profonde trasformazioni demografiche, economiche ed occupazionali. E’ in generale l’effetto combinato dell’invecchiamento della popolazione e del crollo della natalità a creare (in un quadro solitamente critico di finanza pubblica) problemi per la sostenibilità economica dei sistemi e equità dello scambio intergenerazionale (tra le generazioni presenti e quelle future) che è sempre sotteso all’organizzazione dei grandi sistemi di sicurezza sociale, pensionistici, sanitari e sociali. Noi rappresentiamo una parte fondamentale del lungo cammino del welfare moderno, al cui interno è agevole scorgere, comunque, traccia delle tante componenti socio-culturali che hanno contribuito, nel tempo, a formare il mosaico di «convergenze parallele» lungo tutto il percorso) per un filone “interventista” (da parte dello Stato) e un filone di “autotutela” da parte di gruppi sociali. Noi rappresentiamo con la nostre proposte una risposta ragionevole e percorribile, senza presunzioni di completezza , ma sicuramente di complementarietà.

Come si è sviluppato il modello fondazioni all’estero? Ci sono modelli imitabili o adattabili?

Peruzy (Italianieuropei): Non credo esistano realtà imitabili o adattabili alla nostra realtà. Il modello tedesco, ad esempio, è fondato su grandi fondazioni-partito (la Friedrich Ebert Stiftung, la Kondrad Adenauer Stiftung ecc.), fortemente integrate col partito di riferimento, dal quale ricevono anche un forte sostegno economico.
Il modello di riferimento per me è invece quello statunitense, che però è difficilmente replicabile da noi, per alcune peculiarità proprie del sistema americano, quali la presenza di un trattamento fiscale molto favorevole per chi effettua atti di liberalità verso il patrimonio dei think tank, una minore rigidità burocratica nell’amministrazione statale e negli stessi partiti, che facilita il meccanismo del delivery di cui si è detto prima (produzione di idee e adozione delle medesime da parte dei parlamentari). Un modello, quindi, che si può definire di Fondazione privata (come ad esempio la Brookings Institution, la Heritage Foundation ecc.).

Voglino (Nuova Italia): Ci sono molti esempi di Fondazioni di cultura politica all’estero, a cominciare da quelle americane cui facevo riferimento poco sopra. Quanto a queste ultime, mi pare che siano espressione di una prassi e di un sistema politico molto tipico e assai diverso da quello europeo in generale e italiano in particolare.
D’altro canto le Fondazioni “storiche” del nostro continente – dalla Adenauer alla Schuman – mi pare abbiano perso troppo del loro legame organico con la carne viva della politica e dei problemi con cui deve confrontarsi quotidianamente. Se dovessi pensare a una sorta di modello ideale nel nostro continente, penserei piuttosto alla FAES di Aznàr.

Fassina (Nens): Più che un modello, vi sono un ventaglio di soluzioni, differenziate sulla base delle caratteristiche dei contesti culturali, politico-istituzionali, finanche fiscali nei quali le fondazioni operano. In Italia, in particolare in una prospettiva bipartitica, con due partiti alternativi a vocazione maggioritaria e, quindi, segnati dalla presenza di “componenti” interne, ciascun partito, per evitare deleterie derive correntizie, dovrebbe avere a riferimento una pluralità di fondazioni, ciascuna espressione di una delle principali aree politico-culturali ad esso afferenti. Il finanziamento delle fondazioni, per tenere alta la qualità del lavoro svolto, dovrebbe prevalentemente derivare dal contributo volontario dei cittadini e dalla vendita di prodotti (ricerca e formazione) al mercato (non solo politico, ovviamente).

Lanzilotta (Magna Carta): Il sistema politico italiano potrà certamente trarre giovamento dalla tendenza sperimentata da altri sistemi politici, europei e d’oltreoceano, a patto che i ruoli si mantengano distinti. Un “pensatoio” giustifica la propria esistenza fino a quando riesce a produrre proposte originarie, correre il rischio di ingessarne la capacità elaborativa attraverso un processo di incorporazione nelle strutture, e nelle dinamiche, dei partiti potrebbe minarne l’efficacia d’azione (meglio, d’elaborazione).

Servidori (Giovane Italia): Le Fondazioni hanno connotazioni internazionali molto varie ed interessanti : quelle anglosassoni ci insegnano modelli di integrazione di flessibilità e sicurezza sui temi della sicurezza sociale, definiti dalla Commissione Europea e dal Libro Verde che avrebbe dovuto essere discusso in ogni Paese, avviandone il dibattito tra tutte le parti sociali e formulando proposte in merito. Il Libro Verde vede confrontarsi due logiche diverse e non in alternativa tra di loro : una logica di chi concepisce i diritti e le tutele sul posto e nel rapporto di lavoro ; e la logica di chi,invece,privilegia un sistema di tutele generali di cittadinanza sul mercato, indipendentemente dalla tipologia di rapporto di lavoro. Noi, come Fondazione Craxi – Giovane Italia abbiamo già scelto di contribuire su 4 percorsi alternativi volti a garantire una risposta adeguata alla crescita di occupazione e mercati del lavoro di qualità:

  1. la riduzione dei gap tra contratti standard e contratti non standard,rendendo i primi più favorevoli alle aziende e favorendo sistemi di sicurezza sociale più inclusivi;
  2. rafforzamento della adattabilità delle imprese sviluppando e rafforzando la transit security (il passaggio protetto da un lavoro all’altro);
  3. l’aumento degli investimenti in capitale umano
  4. la creazione di nuove opportunità lavorative per i percettori di sussidi,il contrasto alla dipendenza prolungata dai sussidi pubblici,la lotta contro il lavoro irregolare ed il rafforzamento della capacità istituzionale per favorire il cambiamento.

E’ comunque anche un obiettivo di lavoro che come Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà abbiamo condiviso.