Da una parte il Pdl, il principale partito della nuova maggioranza, è un partito a carattere sostanzialmente leaderistico. D’altra parte il neonato Pd, secondo il suo Segretario, è o doveva essere un partito cosidetto “liquido”, mentre un importante esponente del suo partito cioè D’Alema, ha affermato che il Pd «sarà una costellazione di centri studi, di centri di formazione etc..». Siamo di fronte, in altre parole a forme di partito che sembrano evolversi di pari passo con i tentativi di rappresentare i cittadini e di riformare le istituzioni. I vecchi partiti, nel senso tradizionale del termine, con le loro strutture, i loro organismi etc. sono qualcosa di ancora attuale o ce li siamo lasciati alle spalle?



Nella sua domanda lei ha fatto delle affermazioni che vorrei riprendere: sul perchè i partiti siano superati. Quello a cui stiamo assistendo è una reazione da parte di leader partitici per riproporre formule e modelli diversi che ricostituiscono degli agganci ovvero dei legami con la società politica. Il Pdl e soprattutto Forza Italia è un partito leaderistico, è vero, cioè un partito con un forte leader, però è anche vero che è un partito in cui c’è una struttura intermedia a questo punto da molti anni, una “midlevel élite”, un gruppo intermedio di eletti, soprattutto a livello locale, che gioca un ruolo molto importante, non da sottovalutare. Quello che sta diventando il Pd, peraltro, forgiato dal “fuoco” di questa campagna elettorale, è un partito che ha o che potrebbe avere tendenze leaderistiche, ma che è anche “fermato” dal proseguire e consolidarsi in questa direzione dall’esistenza di altre élite intermedie di peso e rilevanza ben maggiore di quelli di FI-PDL. Mi riferisco alla presenza di altri leader di peso a fianco a Veltroni, e ad esperienze locali forti, diffuse e molto radicate in certe aree del paese.


Fatta questa premessa, e quindi chiarito sommariamente che cosa siano i due partiti, è evidente che si pone un problema: e cioè che cosa sostituire, come ripensare i vecchi partiti di massa che – questo sia chiaro – non possono più esistere? Questo è un problema che si pone soprattutto nella sinistra. Come già avvenuto in altri Paesi, uno degli aspetti fondamentali è la domanda: se non vi sono più i partiti in quali sedi si possono pensare ed elaborare le politiche? Questa delle fondazioni ovvero dei centri studi è una possibile risposta.


In questa chiave, le fondazioni sono punti di discussione e di elaborazione delle politiche con precise caratteristiche. Le fondazioni – e la Fondazione Italianieuropei ne è un esempio chiarissimo – nascono dall’iniziativa di una personalità politica o culturale. Ormai da diversi anni molti politici creano centri che possano servire per fare la campagna elettorale, per avere una segreteria, una struttura di sostegno. Alcune fondazioni sono l’evoluzione di questo, altre nascono intorno ad idee politiche. Rispetto a quello che dovrebbe diventare, la Fondazione Italianieuropei sembra lo sviluppo di questo secondo tipo essendo stata creata non come sostegno elettorale a una singola personalità politica, ma grazie all’iniziativa di Amato oltre che di D’Alema. Preciso, di nuovo, le fondazioni prendono in carico alcuni compiti propri dei vecchi partiti in tema di elaborazione delle strategie e delle politiche.



Lei parla di una continuità organica, quindi, tra fondazioni e partiti.

In un certo senso sì. Mettiamola così: c’è una risposta funzionale ad un bisogno che esisteva già, ma a cui veniva risposto con modalità diverse. Le nuove modalità possono attuarsi con maggiore o minore continuità rispetto a come avveniva in passato all’interno dei partiti politici. Questo è l’aspetto visibile. Poi c’è un aspetto “invisibile” da considerare: le fondazioni possono diventare anche un’occasione e uno strumento di dibattito, informale e non visibile, di confronto con l’opposizione, consentendo maggiore libertà rispetto ad un dibattito svolto solo in un ambito pubblico.



Non c’è, a suo avviso, il rischio che queste fondazioni rinnovino su un’altra dimensione quel “professionismo della politica” che ha guastato il rapporto immediato tra cittadini ed elaborazione politica negli anni passati? Che rinnovino una “impar condicio” legata ai finanziamenti, un distacco strutturale tra lavoro di analisi e progetto e problemi quotidiani delle persone?

Non facciamoci illusioni: la politica è anche professionismo. Il problema è se un politico è un bravo professionista che riesce a mantenere dei valori di impegno civico per se stesso e si impegna ad affrontare e rispondere ai problemi che vengono posti dalla realtà e dalle persone. Oppure se è invece corrotto e incapace. Preciso, la politica è professione anche nel saper mantenere un rapporto con i cittadini, a partire dalla capacità di risposta alle domande della gente. Una vecchia definizione di democrazia ideale diceva che la democrazia deve tradursi in capacità di risposta dei governanti alle domande, ai bisogni, alle esigenze dei governati. Questo rimane un punto essenziale.

Per quanto riguarda il modello fondazioni all’estero, è noto il ruolo svolto dai think-tank negli Stati Uniti, che sono centri di elaborazione culturale e strategica. Rispetto a noi sono modelli imitabili o adattabili o la realtà a cui si riferiscono è completamente diversa dalla nostra?

Ci sono somiglianze e differenze. La somiglianza è, di nuovo, nella risposta funzionale, cioè nella risposta ad un’esigenza funzionale. Nel caso degli Usa abbiamo partiti che, da un lato, avevano scarsa organizzazione, relativa presenza sul territorio o difficoltà di presenza sul territorio e, dall’altra, la necessità di elaborazioni politiche per affrontare problemi. Le differenze vengono dalle diverse tradizioni. Nel caso italiano, soprattutto in questi anni, i politici italiani hanno preso l’abitudine di creare centri che funzionassero come segreterie politiche e in alcuni casi le fondazioni sono esattamente lo sviluppo di questi centri. Poi ad un certo momento è arrivata anche una legge che aiutava le fondazioni e questo ha incoraggiato ancora di più il ricorso a questo istituto.

Io le citerei alcuni passi dell’intervista a D’Alema, a colloquio con Italianieuropei, anticipata dal Riformista dello scorso 8 maggio («Tenere botta, e che botta. Basta col riformismo tecnocratico»). Dalle parole di D’Alema si vede bene che si parla di una proposta politica che riguarda il futuro della sinistra. In realtà il tema – il rapporto con le fondazioni appunto – va al di là del semplice momento della tattica politica interna alla sinistra dopo la sconfitta elettorale. Quindi le chiedo: dove vuole andare la sinistra con questa impostazione? Sembra che il concetto di “partito liquido” di Veltroni tenda ad essere riformulato in modo diverso da questa posizione di D’Alema, è così?

Non bisogna forzare il concetto di “partito liquido” di Veltroni, perché quando Veltroni ha chiarito meglio quest’idea politica non ha negato l’importanza di una soluzione mista. Detto questo, effettivamente D’Alema propone una scommessa. Infatti, il problema di che cosa sostituire ad un partito organizzato di massa è un problema più della sinistra che di formazioni di centro cattoliche, o di formazioni di centro destra cattoliche in Europa.

Per il passato dice?

Esattamente. È stato un problema che, per esempio, i socialisti francesi con Mitterrand e prima si erano già posti e avevano risolto con la creazione di club e del loro ruolo nel dibattito politico. Quindi, D’Alema non scopre qualcosa di nuovo. Però, indubbiamente lancia una sfida. Ma c’è un punto importante. Pensare che club o fondazioni del genere possano agganciare la gente – in modo diretto – mi sembra illusorio. Il punto in positivo è che quando la Fondazione Italianieuropei si riunisce, i giornali ne parlano e, dunque, le iniziative politiche di questa o altre fondazioni che possano nascere sono poste all’attenzione del pubblico. Quindi le fondazioni, per il ruolo che svolgono e per i temi che affrontano, diventano così soggetti di proposta politica. Ora, in una fase di frammentazione della proposta, oppure in una fase di deboli leadership, avere istituzioni di riferimento come queste può effettivamente essere importante. Se vogliamo aggiungere ancora qualche considerazione sugli aspetti più di fondo, si può ricordare che con la scomparsa del partito di massa è cominciata a scomparire anche una cultura di comunità, dei modi di pensare collettivi. Non ci si chiama più “compagni”. Ma soprattutto non si sente più che siamo “compagni”. Anche in questa chiave le fondazioni possono diventare un punto di aggregazione per élite partitiche intermedie e anche – ma assai meno – nel rapporto con la gente. In realtà sono soprattutto le primarie lo strumento a disposizione per “agganciare” la gente.

Questa impostazione cultural-politica che chiama in causa le fondazioni come luogo di elaborazione è più tipica della sinistra, come lei ha notato, che non del centro-destra. Ritiene che nel centro-destra essa sia sostituita da una sorta di pragmatismo localistico come dimensione preferenziale di approccio ai problemi della gente? Quello stesso pragmatismo che avrebbe consentito alla centro-destra di vincere al Nord e che invece la sinistra non è stata capace di interpretare.

Ma anche nel centro destra si sono avuti esempi di questo genere. Forse sono stati meno visibili, perché meno sostenuti da leader nazionali e da giornali.

Che cosa nel centro destra avrebbe sostituito questo “volano di trasmissione” – che soprattutto nel centro sinistra sono le fondazioni – tra la politica e l’elaborazione delle idee?

Basta un leader forte o anche due o tre leaders capaci di parlare alla gente. Quella delle fondazioni è una modalità, non è l’unica modalità e funziona meno nel rapporto con le persone. Peraltro, a mio parere, quello che è venuto maggiormente fuori solo in queste ultime elezioni, per cogliere un punto della sua domanda, è questo: che prima i partiti avevano “nazionalizzato” la politica, cioè i termini delle questioni, del dibattito, erano a livello nazionale. A questo contribuisce ovviamente anche il principale strumento di comunicazione, la televisione. Nel momento in cui i partiti di massa scompaiono non esistono più neanche vere organizzazioni nazionali. Allora, diventa importante l’altra fonte di aggregazione, che è il territorio. A livello dei diversi territori – in un certo modo al Nord, in un modo diverso al centro, in modo ancora diverso in un pezzo del sud e in Sicilia – emergono appunto formazioni/gruppi locali che rispondono meglio alle esigenze dei territori. In certe aree i territori riescono ad essere ancora comunità, in altre aree non lo sono più. È questo il significato di fondo, a mio giudizio, di queste elezioni. Mi pare che purtroppo sia stato scarsamente inteso e ancor meno discusso. La domanda vera, quindi, è che cosa succede, come si evolve la politica nei territori. Da questo punto di vista si può capire come le fondazioni con ruoli politici nazionali siano una risposta solo parziale: la dimensione più rilevante della nostra politica sembra diventare sempre di più quella locale, che poi influenza l’altra, quella nazionale.