Un “Manifesto contro il Declino”, per la Ricchezza della Nazione, che chiami a raccolta numerosi autori, «finalmente impegnati sul fronte civile e morale, e non più su quello delle ideologie – le semplicistiche scorciatoie della ragione e degli interessi che si impossessarono dell’anima del Novecento». È la proposta lanciata dalla Fondazione Banca Europa, attraverso un Manifesto, firmato nel suo testo introduttivo dal presidente Ivan Rizzi.
La sola, unica possibile risposta al declino – afferma Rizzi nel testo-chiave dell’ “appello” – è la riscoperta dell’etica. Quale declino? Il declino non di questa o quell’istituto democratico, di questo o quel costume sociale, di questo o quel governo delle cose politiche; ma dell’energia morale che – sembra dire in modo suggestivo ed enigmatico il Manifesto – ha alimentato dall’interno lo spirito del nostro paese, della nostra democrazia, della nostra società e che ora pare in via di esaurimento.
Assistiamo infatti, con complice rassegnazione, al manifestarsi di «un cinismo dell’intelligenza che guarda con sufficienza l’ingresso dell’etica nel sociale e nella politica: così l’etica dovrebbe riguardare solo la nostra intimità, nulla può governare la storia e l’economia, esse sono il regno del caso (ma non lo è anche la vita di ognuno?)». Mentre – rivendica l’appello – il bene, la giustizia, e una nuova ragione morale, non possono non tenere insieme sfera privata e sfera pubblica, dare vero sostegno a quella «cura delle cose pubbliche in pubblico» che è la democrazia, nella definizione di Norberto Bobbio, ma che oggi pare rimessa in discussione dalla caduta di ogni ispirazione universale nel particolare: particolare interesse, particolare motivazione, perfino particolare e limitato orizzonte ideale d’impegno civile e politico, che attacca da dentro, nella forma della globalizzazione e di un “mercatismo” pervasivo che ha trasformato la nostra vita, la nostra vita civile. E quindi la stessa possibilità di un futuro per il nostro paese.
La pluralità di voci che Fondazione Banca Europa ha chiamato a raccolta intende essere il tentativo, aperto e perfettibile, di risposta. Lo fanno, nel Manifesto, seguendo il testo di Ivan Rizzi, numerose personalità della nostra economia e della nostra cultura: da Giancarlo Galli a Umberto Galimberti, da Adriano Teso a Sergio Siglienti e a Umberto Bertelè, da Pier Francesco Guarguaglini a Aldo Romano.
Non solo. Fondazione Banca Europa ha chiesto a Umberto Galimberti, a Giulio Giorello e a Giulio Sapelli di confrontarsi pubblicamente col tema del ruolo dell’etica per la Ricchezza della Nazione, titolo che richiama il famoso La ricchezza delle nazioni di Adam Smith. Ecco dunque un ciclo di incontri, ai quali ognuno dei relatori ha parlato tenendo una sua lectio magistralis.
Giulio Sapelli ha parlato lunedì sera al teatro Dal Verme di Milano. Lo abbiamo raggiunto a margine della conferenza e sulla base delle molte suggestioni aperte dal suo discorso abbiamo chiesto, in modo più diretto, la sua opinione sul tema del bene comune. Inevitabile toccare molti degli aspetti che riguardano il senso della società e dello Stato, della cultura e della politica nell’Italia presente. Ne è scaturita la conversazione che riportiamo.
Prof. Sapelli, il Manifesto contro il Declino, sul quale ha tenuto la sua lectio magistralis, è un invito a ritrovare – o a ricostruire – la “Ricchezza della Nazione”. Partirei proprio da questo punto. In una intervista rilasciata a ilsussidiario.net qualche tempo fa, lei definì l’Italia nient’altro che “un insieme di usi e di costumi”, contrapponendo questo fattore storico culturale alla sua immaturità politica. Ma un insieme di usi e di costumi è la classica definizione di nazione. Dove sta il bene dell’Italia? E il suo bene comune?
Il bene di una nazione come l’Italia sta ancora in quel grumo di ideali e di valori morali che ancora, nonostante l’attuale decadimento, ci sono e parlano al cuore di tanta gente. E poi, soprattutto, nella sua grande tradizione, soprattutto quella storica e artistica. Il bene comune? Ci ha insegnato a capire cos’è il bene comune Jacques Maritain, quando ha detto che io ho dei diritti non perchè sono un cittadino, ma perchè appartengo al genere umano. Per essere cittadino devo avere dei doveri”. Il bene comune è la considerazione che i cittadini hanno di avere dei doveri comuni. Quindi ciò che fonda il bene comune è la considerazione dei doveri che abbiamo verso le generazioni future. E appartiene a una serie di doveri il bene comune, non è una cosa di cui ci appropriamo, ma che doniamo agli altri.
Proviamo ad applicare queste sue considerazioni al caso del nostro paese. Quali conclusioni si sentirebbe di trarne?
Mi sentirei di dire che c’è una non corrispondenza tra una volontà generalizzata di tanti gruppi di costruire il bene comune – gruppi di volontariato, movimenti come Cl, come Avsi, anche se vedo poco dal fronte laico da questo punto di vista – nella consapevolezza cioè di avere dei doveri sugli altri, e la sfera pubblica. Invece questa volontà dal basso di fare il bene comune non trova integrazione nel campo delle decisioni pubbliche, non c’é quella che io definisco una “integrazione sistemica”. È cioè l’incapacità dei decisori pubblici, eletti con principio di maggioranza, di far diventare questo bene comune un insieme di politiche pubbliche.
È la politica ad aver fatto dei passi falsi? Rispetto alla società dovrebbe fare un passo indietro o guidarla?
Dovrebbe certamente fare un passo indietro. Un po’ ne sono stati fatti – con le authority indipendenti – ma un po’ li abbiamo mancati, con queste stesse authority indipendenti che poi abbiamo riempito di nomine partitocratiche. La politica dovrebbe fare dei passi indietro e lasciare che il bene comune perseguito dall’associazionismo svolgesse sempre più anche dei compiti pubblici: penso all’istruzione, al medical care, al no profit. Invece commette un’invasione di campo tipica della divisione pubblico-politica.
Nel suo libro Giulio Tremonti ha scritto che il dna della sinistra si sta dissolvendo, perchè era costituito da due fattori che storicamente sono andati di pari passo, cioè il fattore «progresso» e il fattore collettivo, ma che ora sono divisi perchè il progresso non è più collettivo. Lei cosa ne pensa?
È un libro molto bello dal punto di vista economico, un po’ debole come impianto filosofico. Comunque, anch’io lo avevo scritto nel mio libro sul riformismo: che le frontiere del nuovo secolo sarebbero state le frontiere di un individualismo spinto. Il compito è di far diventare questi individui delle persone, cioè dar loro dei valori morali in modo che posano riaggregarsi ma non più in senso collettivistico e statalistico. Quello che Tremonti non dice è che la sinistra aveva un fine non collettivo ma statalistico. Sono due cose diverse: ha vinto Lassalle, non ha vinto Marx. Paradossalmente è stato Lassalle che ha vinto, cioè la socialdemocrazia tedesca alla fine dell’Ottocento, quindi è passato un principio per cui il welfare andava allo Stato e lo Stato prendeva tutto. Come è accaduto in Italia con la legge Crispi. Ma non è stata solo la sinistra: anche la Chiesa per lungo tempo ha appoggiato quest’idea. Che è appartenuta e appartiene un po’ a tutti, anche se Tremonti la imputa alla sinistra. Questo d’altra parte è un nodo che si sta risolvendo, perchè poi la sinistra è diventata subalterna al mercato ed è lì, forse, la parte più felice del libero di Tremonti: ciò che lui chiama “mercatismo”, che è un termine infelice e imperfetto perchè richiama alla mente il mercantilismo, che è una cosa diversa. Diciamo che possiamo chiamare questo fattore “subalternità al mercato come pensiero unico”, anzi – direi meglio – subalternità all’unico principio, all’unica forma organizzativa sul mercato che è l’impresa privata. Questo è il vero difetto che ha la sinistra oggi.
Anche in Italia?
Soprattutto in Italia. Per la dissoluzione della cultura comunista, perchè quella socialista ha sì visto grandi contributi e vissuto una grande stagione, ma si è rivelata quasi inesistente quanto a influenza. Era il frutto di alcuni intellettuali: penso al mio maestro Momigliano, a Sylos Labini. La tradizione socialista non era certo impersonata da Craxi, ma da questi intellettuali. Una componente assolutamente minoritaria di fronte alla tradizione maggioritaria comunista.
La parola che viene subito invocata in questi casi, quando si fanno i conti con l’affievolirsi dell’identità personale e sociale, è il termine globalizzazione. È una realtà o una scappatoia?
No anzi, è una stupidità. Io tanti anni fa ho scritto in un libro che si chiamava Antropologia della globalizzazione, una raccolta commentata di saggi di antropologi di tutto il mondo dove si dimostrava che, a differenza di quello che pensano i più, sì, la globalizzazione porta una serie di standardizzazione dei consumi, però nello stesso tempo provoca nelle società e nelle comunità una reazione, inducendole a riscoprire le proprie tradizioni. Non c’è periodo nella storia in cui gli uomini riscoprono il passato e vogliono tornare alle tradizioni, dare un senso alla vita, come questo della globalizzazione. Fenomeno che noi storici avevamo già visto nella seconda metà dell’Ottocento quando nasce il capitalismo, inteso come una cosa che pialla tutto, rende tutto uguale e non adatto al secolo dei nazionalismi.
La giornata di lunedì portava il titolo di “Un manifesto contro il declino dell’Italia”. Quali sono, a suo avviso, i punti di questo manifesto ideale?
È un manifesto che invoca il ritorno alle virtù, all’etica, quindi i principi sono giusti, ma teoricamente deboli. Il punto di debolezza è che non si definisce cos’è l’etica. Vi si confonde continuamente l’etica con la morale o con il rispetto della legge, mentre noi sappiamo che l’etica è quell’insieme di valori che degli individui decidono in modo consapevole di condividere, per raggiungere in modo associato determinati fini.
Quindi un ethos, una visione etica vissuta?
Un’etica vissuta che però lascia la libertà morale ai singoli. Tu e io possiamo lavorare con ebrei e musulmani perchè vogliamo diminuire, per esempio, la mortalità infantile, quindi creiamo un’associazione con questo fine, che è un fine etico, ma manteniamo le nostre differenze morali e di religione. Lì si fa una continua confusione tra morale, etica, legge. E poi c’é qualcosa di molto grave, che mostra l’inconsapevolezza delle persone che l’hanno scritto, perchè l’etica può essere fondata solo su un approccio giusnaturalistico, in base al quale esiste un rapporto tra il diritto e la morale. Invece nel manifesto si fa riferimento a Norberto Bobbio, allievo di Kelsen, entrambi fautori del positivismo giuridico: in questo caso la legge vale in quanto norma cioè in quanto è posta dal legislatore. È ciò che gli assassini di Norimberga invocavano proclamandosi innocenti. Oggi, pur rispettando le leggi, abbiamo bisogno di tornare a principi giusnaturalistici, per cui gli uomini hanno diritti in quanto persone e in quanto cittadini hanno dei doveri.