Dott. Cantone, sabato scorso, il vicepresidente del parlamento europeo Mario Mauro e il responsabile del Dipartimento Droga e Crimine delle ONU, Jorge Rios, durante la visita al carcere Due Palazzi di Padova, hanno potuto vedere i laboratori di pasticceria in cui lavorano i detenuti che aderiscono al progetto della cooperativa Giotto. In quella occasione si è parlato di “filiera della sicurezza”, cioè del fatto che a una certezza della pena faccia seguito naturalmente una certezza della sentenza in tempi rapidi ma soprattutto una certezza del recupero e del reinserimento sociale dei detenuti. È dimostrato, infatti, che i detenuti che iniziano il percorso lavorativo dall’interno per poi passare alle misure alternative, quando escono fanno registrare un bassissimo tasso di recidiva. Che scenderebbe sotto il 5%, con punte dell’1%, rispetto a percentuali molto più alte, oltre il 60% di recidiva, rispetto a detenuti che non lavorano.
Capisco il senso del ragionamento e posso condividerlo in certi aspetti. Ritengo tuttavia che sia molto difficile elaborare dati di questo tipo: la stessa amministrazione penitenziaria non ha un follow-up sulle persone che sono scarcerate. È un ragionamento che può essere efficace se riguarda le percentuali di recupero di chi è impegnato nei progetti lavorativi. Su quelli invece – e sono moltissimi – che non sono coinvolti in questi progetti, e poi arrivano in un modo o nell’altro alla scarcerazione un follow-up oggi non ce l’ha nessuno. Il dato significativo è questo: nel momento in cui si viene coinvolti in progetti di lavoro all’interno dell’istituto, intendo progetti che hanno un certo respiro, le percentuali di successo delle prognosi di affidabilità sono molto più ampie. I condannati che stanno scontando pene a medio e medio-lungo termine, in proporzione, quando sono coinvolte in questi progetti danno risultati maggiori. Visto dall’esterno può sembrare strano, addirittura in controtendenza e paradossale. In realtà non lo è perchè la persona che deve scontare pene anche elevate è disposta ad investire su percorsi più efficaci perchè coltiva una speranza forte. In questo senso si è parlato, in questi ultimi vent’anni, di “carcere della speranza”, secondo la felice espressione di Nicolò Amato, cioè di un carcere dove anche persone che hanno condanne elevate posso sperare in un reinserimento nella società, in tempi più o meno ravvicinati a seconda delle opportunità che ci sono. La persona, in altre parole, decide di investire su se stessa. Invece le persone che devono scontare pochi mesi sono già proiettate verso l’esterno, verso il momento in cui torneranno ai circuiti sociali e familiari abituali.
E quindi sono più restie ad intraprendere un percorso di reinserimento: lei stesso dice che su queste persone il carcere può far poco.
Può fare obiettivamente poco. Chi deve scontare una condanna breve, magari quattro mesi, non parliamo poi di tutti quelli che sono imputati in attesa di giudizio, non sta a chiedere opportunità all’amministrazione giudiziaria. In questi casi non si crea quel momento di rottura che sarebbe importante. La persona, in tal caso, esce dal proprio circuito sociale e delinquenziale, entra in carcere e poi uscendo vi ritorna. È chiaro che il carcere in tal caso è solo un’area di parcheggio.
Lei, direttore, nella sua posizione di guida del carcere più grande d’Italia, che esperienza personale ha di questi progetti di reinserimento? Li ha visti funzionare? Che cos’è che impedisce una maggiore diffusione di questi esperimenti?
Attualmente lavoro in una struttura in cui sono operative ben dieci attività lavorative con datori di lavoro esterni: alcune sono di respiro più importante, altre potremmo definirle più di nicchia, impiegando pochi detenuti. Questo testimonia senz’altro che c’è una scelta di tipo ben preciso che coinvolge non soltanto me, ma tutti gli operatori che lavorano con me e che sono coinvolti in questi progetti. Credo personalmente che sia una delle strade più importanti per fare del carcere un prodotto “vendibile”, interessante per la collettività esterna. Un luogo visto come un laboratorio dove si fanno cose che servono per intervenire sulla devianza sociale, e non come un’area di parcheggio, come la cosiddetta “università del crimine”. A Padova, a Milano, ci sono esperimenti interessanti ma anche in meridione. È sicuramente molto importante la collocazione territoriale dell’istituto: lavorare a Roma, o nel Veneto, o a Milano, o a Torino, dà opportunità, strumenti e risorse che altrove mancano.
Intende il contesto all’interno del quale un istituto di pena si trova?
Sì, la società estesa che c’è sul territorio. Anche le istituzioni locali, e poi gli enti di volontariato e no profit. È un fattore fondamentale. Perchè il collega che sta in un piccolo carcere di provincia, in una realtà emarginata, dove non c’è ricchezza sociale ed economica, dove magari ci sono grossi problemi di criminalità, cosa vogliamo che si inventi in quella realtà? Se si vuole creare lavoro bisogna riuscire progressivamente a muoversi sul mercato. Cioè il lavoro in carcere è un lavoro valido nella misura in cui si misura con il reale mercato del lavoro.
Perché è in questo caso, lei dice, che mette i detenuti nelle condizioni reali di poter fare un progetto futuro.
Ma certo. Faccio un esempio molto semplice: a Rebibbia abbiamo un officina fabbri che prima era una nostra lavorazione penitenziaria, che quindi come tale era una lavorazione a fondo perduto, non completamente gestita con l’ottica d’impresa e con tutta la buona volontà non poteva far fronte a un pareggio di bilancio. Da un anno a questa parte è stata affidata a un datore di lavoro esterno. Gli stipendi dei detenuti sono raddoppiati, è aumentata la loro professionalità, è aumentata la qualità del loro lavoro e soprattutto toccano con mano, sulla base delle commesse che arrivano al datore di lavoro dall’esterno, che la qualità del loro lavoro porta risultati. Cosa che prima era sconosciuta. Che un detenuto riuscisse a fare, che so, il mobile in ciliegio, o che riuscisse mettere insieme quattro assemblati, non cambiava nulla ma aveva assicurato, in base alle ore di lavoro prestate all’amministrazione, uno stipendio. Oggi invece un datore di lavoro esterno dice: voglio fare un investimento sociale, ma allo stesso tempo voglio lavorare in ottica d’impresa perchè non faccio filantropia. Voglio un’attività lavorativa che sia produttiva e sia remunerativa. Queste due cose si possono tenere insieme. Oggi, rispetto a tanti anni fa, non ha più senso il luogo comune secondo il quale il detenuto in carcere garantisce una qualità e una quantità di rendimento inferiore, in flessione rispetto al lavoratore in libertà. Non è assolutamente vero nel momento in cui, ripeto, si lavora con un datore di lavoro esterno che condivide un progetto preciso con l’amministrazione penitenziaria.
No quindi a una visione semplicemente paternalistica del lavoro in carcere.
Assolutamente no, perchè altrimenti la persona vede quel posto di lavoro soltanto come un gettone di sostentamento, poco più che un sussidio di disoccupazione. Poi, per carità, all’interno del carcere si lavora anche alle dipendenze dell’amministrazione, quando i detenuti vengono impegnati nelle attività che garantiscono la manutenzione in economia delle strutture penitenziarie. I detenuti fanno molto, sono ben impegnati, si riesce a sopperire e ad economizzare moltissimo rispetto all’impegno con ditte esterne. Ma se si vuole creare un lavoro penitenziario come abbiamo detto, bisogna investire sul datore di lavoro privato, che poi mette insieme il percorso interno con il percorso esterno. I detenuti che rientrano nel nostro progetto “cucina” per esempio, prima di essere scarcerati, hanno la possibilità di andare poi nelle strutture che fanno parte della cooperativa che gestisce la nostra cucina.
Come nella vita da liberi così nella vita da detenuti c’è chi sarà meno propenso al cambiamento, quindi meno propenso a migliorare le proprie condizioni di vita, a fare quell’investimento su di sé di cui prima ha parlato. Lei che esperienza diretta ha di questo?
Non ci dobbiamo nascondere che all’interno del carcere c’è anche un problema non soltanto di dare lavoro ma anche di educare al lavoro. Troveremo non tutti, ma una quota di detenuti che davanti a un lavoro meno retribuito ma di minore impegno, lo preferiscono di gran lunga ad un lavoro professionalizzato ma molto impegnativo, che chiede di lavorare trenta ore su trenta alla settimana. Questo pone il problema dell’educazione al lavoro, di abituare le persone a lavorare. Come in tutte le situazioni e come in tutti i contesti anche il detenuto lavoratore deve essere avvicinato a percorsi lavorativi quanto più possibile interessanti. Ci si deve anche appassionare se possibile. Se si tratta di fare le pulizie di un pavimento, tipico lavoro alle dipendenze in economia dell’amministrazione penitenziaria, c’è poco di che innamorarsi del lavoro. Invece ci sono opportunità lavorative che posso creare un coinvolgimento personale. Come nel caso del nostro call center di Telecom, servizio 12 54. A distanza di due anni dall’attivazione del servizio abbiamo potuto vedere che i detenuti si sono affezionati a questo posto di lavoro, per le caratteristiche che ha, per la possibilità di comunicare con la comunità esterna, per un livello di professionalità che hanno raggiunto e che viene loro riconosciuto. E così anche in altre attività. Con la società Autostrade viene fatto il caricamento dati delle infrazioni, dei mancati pedaggi autostradali. Questi e altri sono percorsi lavorativi che creano anche un amore, un attaccamento al lavoro.
Quello che si fa concretamente nell’attività lavorativa è molto importante da questo punto di vista.
Sì, è molto importante. Questo stimolo di offerta lo può creare quasi esclusivamente un lavoro che proviene dall’esterno, condiviso con l’amministrazione penitenziaria ma gestito direttamente da un datore di lavoro esterno. È lì che si crea la varietà, anche perchè poi inevitabilmente il ritorno economico è anche più adeguato per il detenuto. Si sa che l’amministrazione penitenziaria dà al detenuto che lavora una retribuzione ridotta rispetto a quelle che sono riconosciute al lavoratore in libertà. Questa però è una norma che si applica solo all’amministrazione penitenziaria come datore di lavoro, mentre i datori di lavoro esterni devono riconoscere al detenuto alle loro dipendenze la stessa retribuzione che riconoscono al lavoratore in libertà.