Il 22 maggio del 1978, esattamente 30 anni fa, veniva promulgata la legge sulle “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, nota a tutti come “legge 194”.
Per questa occasione abbiamo intervistato Eugenia Roccella, Sottosegretario al welfare, ed esperta di biopolitica.



La Legge 194 compie 30 anni. Il ricorso all’interruzione di gravidanza è cambiato nel corso del tempo nella motivazione e negli effetti. Come è cambiata negli anni?
L’interruzione di gravidanza è cambiata moltissimo nel corso del tempo. È innanzitutto diminuita in Italia in termini assoluti (era logico aspettarselo, essendo diminuita la natalità), ma anche rispetto ai nati vivi la percentuale è diminuita.
In altri Paesi questo non si è verificato. E non parlo solo della Cina o dell’India, dove l’aborto è uno strumento di controllo delle nascite, usato in maniera violenta e autoritaria. Ma mi riferisco all’Europa, dove ci sono paesi in cui è diffuso l’uso di contraccettivi ed esistono politiche di educazione sessuale, ma nonostante questo il numero degli aborti non diminuisce.
È chiaro quindi che a politiche di diffusione dei contraccettivi non corrisponde una diminuzione di aborti.



Cosa risponde a chi attribuisce la diminuzione di aborti in Italia a un elevato numero di medici obiettori di coscienza?
Non credo che sia così, anche leggendo i dati che emergono dall’ultima indagine sulla 194 presentata al Parlamento.
Questa “stranezza” corrisponde a tutta una serie di altre anomalie. L’Italia è un Paese con una condizione sociale e culturale ancora particolare: c’è un attaccamento culturale alla famiglia, una solidità delle relazioni famigliari, un forte rapporto con i nonni. Tutte cose che coprono i buchi lasciati dal welfare. La famiglia ha quindi una centralità, che però non viene sostenuta dallo Stato. Questo determina la bassa natalità, perché non permette alle donne di essere madri. Occorrerebbe quindi un cambiamento, mantenendo però quelle caratteristiche che hanno reso centrale la famiglia in Italia.
In definitiva, penso che la diminuzione degli aborti sia legata a due fattori: le radici cristiane e la tenuta della coesione sociale e della famiglia.



Lei ha evidenziato la necessità di un cambiamento delle politiche per sostenere la famiglia. Da dove bisognerebbe iniziare?
Prima di tutto, se il fatto di avere un figlio riduce il reddito del 20% significa che ogni figlio è un lusso. Un certo numero di famiglie se fa un figlio in più ha il problema di oltrepassare una soglia che divide un minimo stato di benessere dal rischio di uno stato di povertà. Ogni nuovo nato può mettere in crisi una intera famiglia. Questa non è una condizione accettabile per un Paese come il nostro, con il nostro livello di sviluppo e democrazia. Questa è una pesantissima ingiustizia: è un problema di libertà personale. Il desiderio di maternità che emerge dalle statistiche è rimasto invariato negli ultimi 30 anni. Perché, allora, siamo a natalità zero? È evidente che ci sono degli ostacoli sociali alla libertà personale e questo è un problema che non viene posto. Si pongono con enfasi i problemi delle minoranze, che per carità, contano moltissimo, ma non si è saputo vedere un problema di libertà per una maggioranza delle persone. Le donne in Italia oggi non possono fare i figli che desiderano: è un problema di libertà che tocca moltissime persone. Il problema è rimettere al centro del welfare la famiglia. Ridisegnare il welfare e mettere al centro della politica la maternità. Non più un lusso privato, ma qualcosa che riguarda tutti. Oggi essere madri mette in difficoltà sul piano del lavoro, nel riuscire a far fronte a tutti gli impegni. Non ci sono adeguati sostegni materiali come ad esempio gli asili nido. Non c’è proprio una cultura di sostegno: quel tessuto culturale e sociale in cui la maternità trova alimento. Su questo porto sempre l’esempio francese. La cultura della maternità si crea accompagnando le donne fin dall’inizio: dalla fertilità, al concepimento, alla gravidanza. Il numero troppo alto di parti cesarei indica una mancanza di attenzione alla maternità e subito dopo la donna è sempre lasciata sola con il figlio. In Francia ci sono centri di tipo consultoriale che offrono un sostegno, anche minimo, non specialistico.
Oggi in Italia una mamma è spesso sola in città e se, banalmente, il figlio è malato non le è possibile andare a fare la spesa. Come è esperienza di tutti che i tempi della città non aiutano a conciliare il lavoro extra-domestico e il lavoro di cura. Un efficace sostegno alla maternità è anzitutto un problema di attenzione ai particolari. A volte occorrono gli aiuti non tanto del medico, ma di assistenza domiciliare.

Per risolvere il problema della natalità e per difendere il valore della vita è più efficace quindi un intervento di sostegno in questo senso o – mi riferisco alla proposta di Famiglia Cristiana – è meglio cercare di aggregare una maggioranza che modifichi la 194 in parlamento? È una modalità controproducente o adeguata per migliorare una legge che, comunque, ha 30 anni?
Qualunque legge è migliorabile. Però sappiamo cosa significa la 194 in Italia. È una legge che ha ferito in primo luogo i cattolici e anche simbolicamente è stata una ferita nella società, che ha lacerato quindi anche i laici. Se si riaprisse il discorso, tornerebbero queste lacerazioni e queste divisioni, mentre il Paese non ha bisogno di ulteriori conflitti. Vogliamo tornare a quel clima? Vogliamo tornare al muro contro muro? Penso che questi trent’anni non siano passati invano nè per i laici né per i cattolici. Il referendum sulla procreazione assistita, che è stato speculare in qualche modo (anche se la Legge 40, ci tengo a sottolinearlo, non è una legge cattolica) ha visto il mondo cattolico difendere la legge così com’era, contro un referendum abrogativo che la peggiorava.
Questo atteggiamento prudente ha portato dei frutti, anche nella consapevolezza del Paese sul problema embrione-persona. Quella campagna referendaria, affrontata in maniera diversa da quella del 1978 e in un contesto storico diverso, ha aperto un dibattito dal quale possono venire molti frutti. Molte persone hanno oggi un atteggiamento diverso nei confronti delle nuove manipolazioni tecnoscientifiche, sull’embrione-persona. Molte persone che non si erano più fatte domande di questo tipo, oggi invece se le fanno. Si può usare questo clima diverso unendosi sulle cose che uniscono: sull’aiuto alla maternità, su un’applicazione della legge nella sua parte preventiva, su linee guida che correggano alcune interpretazioni lassiste e sbagliate date in questi anni in sede di applicazione. Non andiamo sull’unico punto su cui si creerebbe una situazione da barricate per le strade.

In Italia l’aborto rischia di diventare un business come in Spagna?

Per fortuna, no. Questo è un aspetto su cui nel corso degli anni ho cambiato opinione, perché all’inizio degli anni settanta pensavo a una forma di depenalizzazione, cioè a una forma più “mite” di legge che si limitasse a depenalizzare l’aborto ma questo non avrebbe comportato l’obbligo di intervenire nelle strutture pubbliche. Nella prassi, si riscontra invece che l’intervento nelle strutture pubbliche cambia molto perché permettere l’ingresso delle multinazionali dell’aborto o comunque di strutture private che hanno interesse a intensificare il numero degli aborti. E’ una riflessione che ho fatto ex-post, ma il dato è sotto gli occhi di tutti. All’epoca era un aspetto che non valutavo adeguatamente, oggi dico: “stiamo attenti”. Sono una pragmatica ed è evidente che in questo il percorso pubblico offra delle garanzie.

Cosa vuol dire per lei rispetto alla 194 perseguire una politica laica non ideologizzata? Vuol dire mettere da parte i valori personali in cui crede?
E’ molto meglio come metro di giudizio usare sempre la verità, anche quando può sembrare scomodo. Fare una politica laica e non ideologizzata non significa affatto mettere da parte i propri valori. Laico vuol dire semplicemente che l’approccio alla conoscenza è libero, non ideologico, appunto, ma i valori rimangono, altrimenti i laici non dovrebbero avere valori, ma non è così. Il non negoziabile rimane non negoziabile per un laico come per un cattolico e l’umano secondo me non è negoziabile. Poi la politica richiede sempre delle cautele, disponibilità alla mediazione e anche al compromesso purchè sia chiaro che devono essere “alti” perché la mediazione non è un valore in sé ma una prassi, non è un fine ed è un errore ritenerlo tale.