Sabato scorso Mario Mauro, vicepresidente del Parlamento Ue e Jorge Rios, responsabile del Dipartimento Droga e Crimine dell’Onu, hanno visitato i laboratori della cooperativa Giotto interni al carcere Due Palazzi di Padova. Qui i detenuti svolgono un lavoro che è riconosciuto e apprezzato all’esterno, con risultati sorprendenti e non inferiori a quelli delle stesse attività svolte da normali aziende private.
In quella occasione si è parlato di “filiera della sicurezza”, cioè del fatto che a una certezza della pena deve far seguito una certezza del recupero e del reinserimento sociale del detenuto. È un dato di fatto, in effetti, che il lavoro contribuisce di molto a ridurre la recidiva. I dati resi disponibili dagli operatori parlano di percentuali molto basse – dall’1 al 5% di recidiva – rispetto a percentuali molto più alte di recidiva per i detenuti che non lavorano. Ma che senso può avere lavorare in carcere? Qual è la sua esperienza in proposito?



La funzione rieducativa della pena è fatta di due momenti. Il primo è la presa di coscienza di quel che non ha funzionato nella vita del detenuto, di cosa ha condotto al reato commesso. Il secondo momento consiste nel fornire, a chi ha preso consapevolezza delle proprie responsabilità, delle opportunità delle quali – a causa di una certa condotta che ha portato alla commissione del reato – non si è beneficiato. Queste opportunità possono essere date dalla formazione professionale, dall’istruzione o dal lavoro. Ora, il lavoro aiuta sia il primo momento, perché tenendo impegnato il soggetto e mettendolo a contatto con se stesso come soggetto all’opera, la persona è facilitata a rendersi conto delle proprie responsabilità, del fatto che nella vita le azioni sono imputabili. Ma è di aiuto anche nel secondo momento del processo rieducativo: perché il lavoro è in grado di dare alla persona delle chance che altrimenti non avrebbe. Se ad una persona che vive nei quartieri spagnoli di Napoli non si dà una possibilità di poter vivere diversamente da come ha fatto fino al momento di delinquere, è chiaro che il percorso è poco concreto. Se vogliamo recuperare qualcuno dobbiamo aiutarlo ad avere questa consapevolezza e dargli gli strumenti perché questa consapevolezza non si infranga di fronte alla realtà. Certo, è più facile in quelle realtà dove il lavoro non è una merce rara ma è accessibile a tutti, come accade a Padova, dove lavorano più o meno cento persone su cinquecento.
 



Lei dove lavora?

All’ufficio sorveglianza di Pescara. E quindi sono competente sui cinque carceri di Pescara, Teramo, Chieti, Lanciano e Vasto.
 

Le chiedo questo perché Cantone, in una intervista pubblicata ieri su ilsussidiario.net, diceva che poter offrire ai detenuti un futuro è più facile se il carcere è situato in un contesto territoriale arricchito rispetto a quello di realtà provinciali con un contesto penalizzante, che può non solo non essere d’aiuto ma anche ostacolare un reinserimento. Che ne pensa?

È un fatto, purtroppo, che più si scende al Sud più le chance di recupero sono ridotte. Solitamente gli aiuti vengono dagli enti locali – Regione, provincia e comune. Là dove l’ente locale non ha risorse per sé, gli riesce ovviamente più difficile dedicare risorse a chi è nel bisogno.
A Vasto, a partire dal 2003, abbiamo svolto un’attività di giustizia riparativa, mandando i detenuti a fare operazioni di pulizia delle spiagge prima in permesso premio, poi con borse lavoro finanziate dal comune, che hanno permesso di retribuire i detenuti. Quest’anno è cambiata l’amministrazione comunale e abbiamo avuto grosse difficoltà a lasciare 300 euro a ciascuno dei cinque detenuti che erano stati assunti in borsa lavoro. Il comune ha dei vantaggi fiscali – perché i detenuti sono sgravati dal punto di vista fiscale – e un ritorno economico che, però, non risulta decisivo ai fini dello stanziamento in delibera di ulteriori fondi. L’aiuto quindi si rivela infine poco significativo.
 



Che cosa dà al detenuto la motivazione per seguire un programma di reinserimento lavorativo?

La motivazione al cambiamento nasce innanzitutto dal rendersi conto del perché si è in carcere. E questa presa di coscienza la devono suscitare gli operatori penitenziari. Che sono pochi e devono affrontare problemi diversissimi e complessi. Tutto dipende molto, dunque, dalla libertà di mettersi in gioco da parte del detenuto e dalla positività e credibilità di colui che lo incontra.
 

Di rieducazione né il legislatore, né la giurisprudenza, né gli operatori danno una definizione univoca e quindi va interpretata in base alla società che c’è fuori del carcere…

Esatto. È soprattutto un problema di contenuto. La possibilità di cambiamento c’è se io che ho sbagliato ho davanti una persona che mi aiuta a comprendere cosa ho sbagliato e perché; e se poi, non dico “mi dà l’esempio” perché non è un problema moralistico, mi fa brillare negli occhi che una vita diversa è possibile. Ci sono persone che delinquono perché non hanno avuto opportunità, qualcuno che potesse comunicare loro una positività.
 

Gli extracomunitari stanno diventando una fetta sempre più ampia della popolazione carceraria. In maggioranza i loro tempi di detenzione non sono lunghissimi. E questo può penalizzare l’attenzione verso percorsi di reinserimento possibili, perché il detenuto pensa già a quando potrà uscire. Qual è la sua esperienza di carcerazione di detenuti immigrati?

Il tempo è un fattore importante perché nel giro di tre mesi, ad esempio, è difficile poter cominciare ed aiutare un lavoro su di sè. In tutti i rapporti umani c’è bisogno di un minimo di continuità e di durata. Effettivamente le pene degli extracomunitari a volte per furti, ricettazioni, rapine sono brevi, esigue. Il problema vero però, è che lo straniero non ha collegamenti, punti di riferimento sul territorio, non ha la famiglia, che dà solitamente le motivazioni più forti per non tornare a delinquere. La presenza di una famiglia che materialmente supporti l’immigrato e che affettivamente lo sostenga è fondamentale, e questo per moltissimi immigrati è il dato discriminante. Non lo è tanto la lunghezza della pena, perché ci sono stranieri coinvolti nel traffico di droga, reclusi nel carcere di Lanciano in base agli articoli 73 e 80 del D.P.R. 309-90, cioè spaccio e traffico di droga a grandi livelli, quindi con 5,6, 7 anni di detenzione da scontare e in casi come questi, il tempo per operare c’è. Ma spesso non c’è una famiglia che accompagni materialmente ed affettivamente il detenuto a vivere il momento detentivo. Comunque questo è vero anche per i detenuti italiani: una famiglia disposta ad attendere per tanto tempo l’uscita dal carcere è sempre più difficile trovarla.
 

Ieri il primo Consiglio dei ministri, come ampiamente previsto, ha istituito il reato di immigrazione clandestina. Qual è il suo giudizio?

Un’attenta regolazione del fenomeno è utile. Senz’altro occorre un atteggiamento positivo verso coloro che entrano nel territorio dello Stato per lavorare e cercare opportunità che altrove non sono riusciti ad avere; ma che il fenomeno vada in qualche modo regolato è evidente. La realtà ci dice che naturalmente non è vero che sono solo gli stranieri a delinquere, ma quando uno si trova in territorio straniero senza la possibilità di avere una casa, e anche di essere aiutato a lavorare per vivere, è indotto a delinquere. Per questo chiedere a chi vuole entrare nel nostro territorio una motivazione giusta e lecita mi sembra importante.

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