La legge n. 194 del 1978 recante “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza” introduce previsioni volte a disciplinare l’interruzione volontaria di gravidanza e a depenalizzare l’aborto in forza dell’abrogazione degli articoli 545-555 del codice penale.
L’art. 1 della legge rende espliciti i principi che informano la disciplina dell’interruzione volontaria di gravidanza: ivi si legge, infatti, che lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente responsabile e che esso riconosce il valore sociale della maternità, tutelando la vita fin dal suo inizio.



In questa sua fondamentale impostazione difensiva, la legge sembra essere in continuità con la celebre sentenza n. 27 del 1975, pronunciata in merito alla disciplina normativa previgente alla legge n. 194, in cui la Corte Costituzionale – che pure giunge a depenalizzare l’aborto nei primi mesi di via del feto – aveva affermato che la tutela del concepito avesse un fondamento nell’art. 2 della Costituzione sulla tutela della dignità umana e nell’art. 31, che impone espressamente allo Stato di difendere la maternità.
Proprio per soddisfare le finalità affermate nell’art. 1 della legge in esame, l’art. 2 della stessa attribuisce ai consultori familiari un ruolo fondamentale di assistenza alla donna durante lo stato di gravidanza. In particolare, a tali strutture è affidato il compito di informare la donna sui diritti a lei spettanti in base alla legislazione statale e regionale, nonché sui servizi sociali, sanitari e assistenziali concretamente offerti dalle strutture operanti nel territorio.
Si prospetta pertanto, almeno sulla carta, un ruolo attivo e tutt’altro che irrilevante dei consultori, il cui fine è quello di agevolare la scelta della maternità, anche attraverso l’attuazione di interventi speciali. Tuttavia, è storia nota che nella concreta attuazione della legge 194 si è registrato uno svilimento del ruolo dei consultori o un loro utilizzo depotenziato e distorto rispetto alle finalità originarie. In particolare, sembra pressoché lettera morta la previsione che prevede la possibilità per i consultori, sulla base di appositi regolamenti o convenzioni, di «avvalersi della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita».

Un altro punto nodale della legge 194 riguarda la definizione dei termini entro i quali è consentito abortire. Nei primi 90 giorni di gravidanza, il ricorso alla IVG è permesso alla donna in presenza di circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute o alle sue condizioni economiche, sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito.
Le fattispecie che legittimano il ricorso all’aborto nel primo trimestre di gestazione sono, a ben vedere, estremamente eterogenee e disorganiche, tali da lasciare un ampio margine di discrezionalità in merito alla decisione di abortire. Resta tuttavia da rimarcare la preoccupazione del legislatore di limitare la facoltà di abortire solo in presenza di cause serie, quand’anche disorganicamente elencate.



Per quanto riguarda l’interruzione volontaria della gravidanza dopo i primi 90 giorni, la disciplina si fa più restrittiva: essa è praticabile solo quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna, oppure quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. Trattasi, come si vede, di formulazioni severamente circoscritte, che avrebbero dovuto indurre i decisori a rifarsi a tali norme solo in casi estremi. Vi è da aggiungere, a riprova della evidenziata ratio legis, che, quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di grave pericolo per al vita della donna e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto (così letteralmente recita l’art. 7 della legge in esame).

Nell’insieme, emerge la tendenza del legislatore a subordinare l’aborto alla difesa della salute o della vita della donna, contro ogni tentativo di fare dell’aborto uno strumento eugenetico (per tacere poi della prassi che vede nello stesso un mezzo di limitazione delle nascite, espressamente vietata dall’art. 1)
Un ultimo aspetto cui si ritiene opportuno accennare riguarda la previsione, accordata al personale medico e sanitario, di sollevare obiezione di coscienza e pertanto di essere esonerato dal prendere parte agli interventi di interruzione volontaria di gravidanza. Anche questa previsione offre un importante aggancio letterale per una interpretazione restrittiva di tutto l’impianto normativo; come è noto, infatti, l’obiezione di coscienza viene consentita a tutela di situazioni di potenziale grave conflitto tra le scelte legislative e i diritti fondamentalissimi della persona.

Considerata nel suo tenore letterale comprensivo e alla luce della giurisprudenza costituzionale anche posteriore, la legge 194 manifesta una chiara tendenza a non considerare l’aborto un diritto di libertà – diversamente da quanto comunemente si pretende di leggere tra le sue righe – bensì solo l’estrema ratio cui l’ordinamento consente di adire in casi problematici, così problematici da consentire un vulnus ai principi fondamentali dello stesso, tra cui spicca il diritto alla vita e la tutela della parte più debole nei rapporti sociali.

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