Dott. Tamburino, ilsussidiario.net ha avviato una riflessione sul tema del lavoro nelle carceri. La rieducazione non può fare a meno di un’assunzione crescente di responsabilità da parte dei detenuti. Il reinserimento attraverso progetti di lavoro è la strada maestra per attuare quanto previsto dall’articolo 27 della Costituzione?



Il lavoro è sicuramente una delle condizioni esistenziali che maggiormente favoriscono l’inserimento sociale, perché riguarda tutti, anche le persone libere: abbiamo un posto nella società anche perché lavoriamo e lavorare significa essere riconosciuti come membri utili di una società. Questo riconoscimento reciproco ci aiuta ad avere un’integrazione con gli altri. Questo è indubbiamente vero soprattutto per i detenuti, perché per molti di loro non c’è l’abitudine del lavoro. E identificarsi in un ruolo socialmente utile è senz’altro un fattore che può modificare profondamente la persona.




Si parla di funzione rieducativa della pena. Come va interpretata? Al pari di un trattamento? O come qualcosa di più profondo? Che considerazioni si sente di fare sulla pena in quanto tale? Rimane poi il problema di definire cosa vuol dire «rieducazione», visto che la giurisprudenza non offre una definizione di questo concetto.

Una premessa è secondo me necessaria: la pena è inevitabile nelle società, per come le conosciamo noi. È stato sempre molto suggestivo – e lo sarà sempre – concepire una società senza pena. Ma una società senza pena non è mai esistita. La pena è qualcosa in sé di negativo, che per quanti sforzi si facciano, rimane una risposta basata sulla privazione o sulla sottrazione di una prerogativa del soggetto. E non senza sofferenza. Un elemento negativo, direi, nella pena è inevitabile. Detto questo, è vero: la rieducazione non è espressamente definita dall’ordinamento giuridico. Ma da un punto di vista laico, dell’ordinamento generale, possiamo dire che la rieducazione è quanto meno l’abbattimento della recidiva. In passato ho usato questa espressione: rieducazione vuol dire far uscire dal “pozzo della recidiva” cioè aiutare le persone a liberarsi dalla necessità di commettere altri reati. Mi pare un requisito minimo su cui – anche in una visione laica, cioè che prescinde dall’assunzione di valori di altro genere rispetto a quelli propri del diritto – ci dovrebbe essere accordo generale. Ovviamente c’è una componente senza la quale non si può far nulla: la scelta del singolo.




Lei che esperienza ha di quest’ultimo fattore, così decisivo?

La mia esperienza è che è possibile uscire dalla “costrizione” della recidiva; però questo riguarda, da un punto di vista sperimentale, una certa percentuale, non riguarda la totalità e purtroppo nemmeno la maggioranza. Per certi reati però la non ripetizione del reato è più frequente. Nel caso dell’omicidio, che è il più grave dei reati, l’autore è soggetto ad una sanzione a cui si aggiunge anche il trauma della tragedia che ha fatto ricadere su un’altra persona. Ma questo gli dà anche la possibilità di meditare e di arrivare a una volontà ferrea di non ripetere il reato. Ciò avviene con una frequenza notevole. Per gli altri reati c’è da fare una distinzione. Ci sono persone che fanno un reato una prima volta. Tra queste una parte consistente non delinque più. Invece abbiamo tassi di recidiva altissimi là dove ci sono persone con una pluralità di reati. In conclusione: una parte di coloro che commettono un reato non ne commette altri, ma un’altra parte continua a farne, come se diventasse una scelta di vita. Per questi ultimi soggetti è molto difficile non ricadere nella recidiva, ma neppure in questi casi è impossibile uscirne.


Se si mette la rieducazione al centro della pena, come si giustifica un istituto come quello del 41 bis? Ha ancora senso parlarne oggi? Come può andare d’accordo con una concezione fondata sulla disponibilità del singolo a intraprendere un percorso di reinserimento?

Per dire che il 41 bis non abbia più senso oggi dovremmo trovarci in una società molto più sicura di quella italiana, dove la criminalità organizzata è un fenomeno sociale endemico. Abbiamo territori dove la legalità dello Stato è debole, se non assente. Se questa situazione fosse ridotta o estirpata, allora certi strumenti come il 41 bis potrebbero essere abbandonati. Ho vissuto tutti gli anni del terrorismo: in quella fase, quando la minaccia era gravissima, si dovette ricorrere anche a strumenti forti e proporzionati. E uno dei mezzi più importanti non è la proclamazione di pene altissime, come per esempio gli ergastoli, ma il momento dell’esecuzione. Si è capito, in quegli anni, che la fase dell’esecuzione, cioè il momento in cui si esegue la pena, è cruciale nel rispondere a un fenomeno criminale. La modalità con cui viene eseguita di fatto la sanzione è assolutamente rilevante dal punto di vista pratico. E il tempo del terrorismo ha mostrato l’efficacia di determinati strumenti relativi alla gestione della pena. Poi quando la minaccia del terrorismo è scomparsa – oggi ne abbiamo uno diverso, internazionale – allora certi strumenti si sono potuti abbandonare. Analogamente il 41 bis, oggi, è pensato per i fenomeni mafiosi, che purtroppo sono ancora molto forti nel nostro paese.


Lei ha esperienza del funzionamento del sistema carcerario all’estero. Che cosa possono insegnarci altri sistemi più efficienti del nostro?

Ho trovato che il sistema penitenziario spagnolo sia molto avanzato – e questo semplicemente perché è uno dei paesi che si è aggiornato più tardi. Ci sono due aspetti interessanti: il primo è che le pene inferiori a sei mesi non comportano mai il carcere. Cioè si considera che una pena troppo breve non consenta un lavoro utile sul detenuto e quindi sotto i sei mesi si trovano altre forme di risposta penale. Un secondo aspetto interessante del sistema spagnolo è che il personale penitenziario è profondamente integrato: non c’è propriamente una polizia penitenziaria perché la sorveglianza viene fatta dalla polizia esterna. All’interno c’è un personale in divisa, ma non di polizia, fortemente integrato con il personale del lavoro e della rieducazione. Poi la Germania, per il suo grado di efficienza e per certe soluzioni più moderne. Per esempio ho visto istituti ad alto indice di sicurezza, con forme di controllo avanzate, in cui il detenuto ha le chiavi della cella. Inoltre il lavoro dei detenuti in Germania avviene con percentuali ben più elevate che da noi: più del 50% dei detenuti, con alcuni istituti in cui a lavorare è il 90%.


Rispetto alla nostra è una percentuale abissale.

Sì, è una differenza abissale. E a occuparsi del lavoro è un manager, che deve far quadrare il bilancio alla fine dell’anno. Un altro aspetto che si riscontra all’estero, soprattutto in Inghilterra, è l’attenzione agli aspetti psicologici o psichiatrici del detenuto, che da noi è del tutto insufficiente per ragioni di spesa. Mentre occorrerebbe una presenza – senza fare del carcere un ospedale psichiatrico – che garantisca ai carcerati un’assistenza psicologica. Ovviamente ciò comporta dei costi. Ma ne varrebbe la pena.


Vorrei toccare un aspetto più personale del lavoro di un magistrato di sorveglianza. Avendo egli a che fare direttamente con il percorso del detenuto, verrebbe da pensare che sia più giudice di un rapporto tra persone che giudice di un fatto. Quanto un magistrato come Lei è esposto al rischio della libera scelta del detenuto di affidarsi a un percorso educativo o – viceversa – di tornare a delinquere? Penso al caso Izzo, per esempio. Quanto rischia un magistrato di sorveglianza in termini di responsabilità?

È vero che noi non siamo giudici del fatto, perché il fatto è già stato accertato, noi ci troviamo di fronte a una sentenza. Siamo piuttosto giudici della persona o più esattamente della trasformazione della persona. Noi dobbiamo cercare di capire se la persona che ha compiuto quel reato, magari gravissimo, sta cambiando e in relazione a questo cambiamento applicare, secondo le leggi, gli istituti che l’ordinamento penitenziario prevede. Questo giudizio sulla persona è difficilissimo. Chi può dire di conoscere la persona? Neppure noi conosciamo bene noi stessi e comunque non possiamo sapere come reagiremo in determinate situazioni; è un’operazione difficilissima. Un magistrato di sorveglianza deve ridurre il margine di rischio nei limiti di ciò che è ragionevolmente possibile. Tuttavia la società deve avere ben presente che – pur nel pieno rispetto della legge – il rischio non potrà essere del tutto eliminato.


Le leggi attuali lo aiutano o no?

Ciò che aiuta più di tutto è l’esperienza. Esperienza che non è solo il diritto perchè le leggi segnano una cornice, ma non dicono come si deve dipingere il quadro.


Cosa ne pensa degli istituti clemenziali? Vien da pensare che alcuni provvedimenti di amnistia e indulto potrebbero sembrare quasi interferenze nel percorso di responsabilizzazione che un certo detenuto sta facendo.

L’indulto risponde a motivazioni che sono completamente diverse da quelle che presiedono all’attività del magistrato di sorveglianza. Il magistrato di sorveglianza deve semplicemente capire se rispetto a un percorso di trasformazione della persona un determinato istituto penitenziario può essere adatto o no, naturalmente salvaguardando, nei limiti del possibile, i rischi per la società. Invece l’indulto ha bruscamente interrotto un percorso di recupero iniziato da anni, talvolta danneggiando lo stesso detenuto. L’indulto risponde a logiche politiche.


Gli extracomunitari stanno diventando una componente importante della popolazione carceraria. E i loro tempi di detenzione non sono mediamente dei più lunghi. Questo immagino che penalizzi l’attenzione verso possibili percorsi di rieducazione e lavoro, perchè il detenuto è già proiettato a quando sarà fuori. Che ne pensa? In secondo luogo, ieri il Consiglio dei Ministri, come già previsto, ha istituito il reato di immigrazione clandestina. Qual è il suo giudizio?

Rispetto alla prima domanda è vero, abbiamo in carcere una percentuale sempre maggiore di extracomunitari. In non pochi istituti ormai abbiamo doppiato la metà, ma ci sono istituti dove arriviamo al 70%. Questa presenza è pesantissima ed è complicata non solo dal fatto cui lei accennava, cioè che non si riescono a programmare interventi seri di recupero, ma soprattutto perchè, anche se le pene fossero più lunghe, ci sono notevoli difficoltà di lingua e di cultura. Quindi è vero che nei confronti di questa parte della popolazione si riesce a fare meno ancora di ciò che si faceva e si fa nei confronti del detenuto tipico. Non è una cosa semplice trovare una soluzione, si è fatto e si sta facendo ricorso a mediatori culturali, a forme e tentativi di integrazione, a volte anche con buoni risultati, però non bisogna farsi molte illusioni.


E sull’introduzione del reato di immigrazione clandestina?

Non mi sento di dare giudizi su ciò che farà, se lo farà, il Parlamento o su ciò che ha fatto il Governo. Penso che questo provvedimento dovrebbe essere accompagnato da una serie di altri interventi, senza i quali o resterà scarsamente applicato oppure in tempi brevissimi rischia di far esplodere le carceri.


Cosa dovrebbe accompagnarlo invece?

Dovrebbe trovare posto all’interno di una complessiva strategia di contenimento dei flussi che parta soprattutto dai paesi di provenienza, sulla base di accordi con i paesi di origine e di transito.


E dare seguito ad un programma di espulsione in modo capillare potrebbe rivelarsi a dir poco problematico.

Sarebbe difficile e costoso. Supponiamo che la permanenza clandestina sia un reato: ci troveremmo di fronte a migliaia o decine di migliaia di persone che un reato già l’hanno commesso e quindi saremmo nella situazione di dover fare dei giudizi penali, con il costo che ne consegue e con una macchina della giustizia penale già sovraccarica. E ci troveremmo ad avere nuove esecuzioni penali, con nuovi ingressi in carcere. E con un sistema penitenziario che esplode. Non mi permetto di giudicare il provvedimento, mi limito a notare che questa misura dovrebbe rientrare in una strategia più ampia di contenimento del fenomeno immigratorio.

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