Carcere circondariale di Rebibbia. Sei cancelli separano i detenuti dalla libertà. Sei barriere che a entrarci manca l’aria, se non si e abituati, perché oltre alle chiavi da girare ci sono le sbarre a ricordare che si entra in un luogo tutto particolare.
Maria Pia Giuffrida, dirigente generale del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, era stata lungimirante, qualche tempo fa, quando aveva provato a unire i due mondi, quello del carcere e quello fuori dal carcere, proponendo che fossero le imprese a investire sui detenuti, a entrare in galera insomma. Ci aveva provato e qualche impresa, o meglio qualche cooperativa sociale, ha accolto l’invito e ha investito risorse ed energie nel lavoro dei detenuti. «Perché se a coloro che si trovano in carcere – spiega Luciano Panzarotto, responsabile della cooperativa sociale “Men at Work” che assieme all’ “E Team” della Caritas gestisce una mensa all’interno del carcere di Rebibbia – si dà una prospettiva di cambiamento, se si prova a offrire loro un lavoro retribuito, la vita cambia e soprattutto il futuro cambia».
È proprio questo lo scopo dell’inserimento delle imprese nelle carceri: abbattere la recidiva con il lavoro. Su cento detenuti è probabile che accettino di lavorare in venti, ma quei venti può darsi che una volta usciti dal carcere continuino a fare quello che facevano quando erano dentro: lavorare senza tornare a essere delinquenti.
Inizialmente (era il 2003) don Sandro, il cappellano di Rebibbia che con la Caritas già lavorava nel carcere, ha aiutato la “Men at work” nell’inserimento. Non era facile, infatti, cambiare le regole di una mensa che da anni si gestiva a modo suo. I macchinari erano vecchi, vecchissimi. I posti migliori erano assegnati non secondo il merito ma secondo l’anzianità. Metà del cucinato veniva buttato perché ai detenuti non piaceva. «La situazione spiega Panzarotto era difficile. Il nostro intento era quello di fare impresa, ne più ne meno. Non avevamo, insomma, intenzione di svolgere un’attività di semplice caritativa. No, volevamo fare sul serio, stare alle regole del mercato, lavorare come si deve. Così abbiamo avviato una selezione del personale. Abbiamo dato un avviso a tutti i detenuti dicendo loro che chi lo desiderava poteva partecipare ad un corso di formazione, al termine del quale trenta persone sarebbero state selezionate per lavorare in cucina. Così abbiamo fatto e i migliori trenta sono stati assunti per lavorare».
Da allora alcuni carcerati hanno preso il patentino di pizzaioli acquisendo una professionalità ben retribuita anche fuori dal carcere. Si è trattato di una svolta, poiché prima che “Men at work” mettesse piede a Rebibbia, le cose venivano controllate dall’alto e le guardie si limitavano a gestire una situazione precostituita, dove nulla poteva cambiare perché tutto doveva essere come era sempre stato: lavorava solo chi era più anziano o solo chi aveva guadagnato qualche diritto in base a regole interne tra i detenuti. Oggi, invece, c’e una possibilità per tutti. «La nostra – spiega ancora Panzarotto – è stata una battaglia d’intelligenza. Per affermare il nostro metodo, quello della meritocrazia, abbiamo dovuto sudare, ma oggi le cose vanno meglio: non soltanto la cucina del carcere è migliore, ma i detenuti che vi lavorano imparano delle regole, imparano una modalità di lavoro e capiscono che questa modalità la possono applicare se vogliono anche una volta fuori».