Con decisione speculare rispetto al primo Consiglio dei ministri “napoletano”, la prima riunione del governo ombra si è tenuta a Milano, venerdì scorso. Un’occasione per dimostrare l’attenzione che il Pd vorrebbe dedicare sempre di più alle tematiche care al Nord, come, ad esempio, federalismo e sicurezza. Tematiche su cui il presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati, da sempre insiste, e su cui in Lombardia «si è costruito in anticipo sui tempi una modalità di lavoro», quella cioè delle intese bipartisan, «che oggi è diventata nazionale».
Presidente Penati, in occasione della prima riunione del governo ombra si è parlato di molti argomenti, tra cui inevitabilmente, vista anche la sede scelta, il federalismo. Qualche ministro-ombra ha però detto che il federalismo fiscale della Lombardia spaccherebbe l’Italia. Non le sembra un’affermazione eccessiva, visto che la proposta della Regione Lombardia è stata condivisa con il Pd lombardo?
Credo che al di là delle affermazioni, ci sia la necessità di un approfondimento da parte del centrosinistra sui temi del federalismo e mi sembra che la disponibilità a porre al centro dell’azione del governo ombra, tra le priorità, l’attuazione della riforma del Titolo V, l’introduzione del federalismo e in particolare del federalismo fiscale sia un punto di partenza importante. Questo costituisce un terreno di confronto con le forze del centro destra in Lombardia, e con Formigoni in particolare, un terreno di confronto che mi auguro possa essere il più proficuo possibile.
Qual è allora il cuore della vostra idea di federalismo fiscale?
Nell’incontro di venerdì c’è stato un giro di tavolo e abbiamo chiarito un po’ la questione. Parlare di federalismo fiscale focalizzando l’attenzione dalla parte delle risorse può portare un po’ fuori strada; io partirei invece dalle funzioni e dal principio di sussidiarietà tra gli enti. Sono infatti necessari un chiarimento e una semplificazione delle funzioni che ogni livello di governo deve svolgere, dal governo nazionale alle regioni, alle province, ai comuni e alle città metropolitane, eliminando sovrapposizioni, inefficienze, doppioni, e da lì costruire un progetto di federalismo fiscale che finanzi e renda autonomo il lavoro degli enti locali. Alla fine del processo di introduzione del federalismo fiscale l’obiettivo è che ci sia una forte semplificazione rispetto al rapporto cittadini, imprese e fisco stesso. Secondo obiettivo è quello di garantire una vera autonomia finanziaria ai livelli di governo locale in modo che ci possa essere una programmazione dell’intervento e degli investimenti, facendo leva sul principio di responsabilità.
Qual è la sua opinione sull’abolizione dell’Ici? Ritiene anche lei, come alcune voci critiche hanno detto, che si è abolita l’unica tassa “federalista”?
Togliere l’Ici sulla prima casa è un impegno bipartisan, perchè il lavoro l’aveva già avviato il governo Prodi e lo ha completato il governo Berlusconi. Questo però, se non si lavora speditamente sul federalismo fiscale, fa riportare le finanze degli enti locali, in particolare quelle dei comuni, agli anni ’80, con una forte quantità di risorse che sono derivate dai trasferimenti centrali. L’Ici era un cespite che dava autonomia ai comuni, anche se probabilmente era sbagliato che gravasse sulla prima casa; con l’eliminazione dell’Ici, però, si torna ad una finanza fortemente derivata e fortemente dipendente dalle scelte centrali. A questo punto, dunque, è ancor di più necessaria la riforma del federalismo fiscale.
Oltre a una maggiore sensibilità sulle tematiche del federalismo, il centrosinistra deve fare i conti con una certa indecisione sul tema della sicurezza: quanto ha pesato questo sulla sconfitta elettorale?
Io penso che il centrosinistra abbia perso per una serie di problemi e che non bastino le semplici dichiarazioni su un tema così sentito come quello della sicurezza. Perché le forze politiche conquistino la fiducia non bastano certo le parole, occorre che alle parole seguano degli atti. E probabilmente più di tante parole ha pesato in maniera negativa il fatto che l’Unione, nelle sue divisioni interne, ha mostrato una grande incertezza, dimostrandosi indecisa nel momento in cui bisognava prendere decisioni urgenti. Le faccio un esempio: il “pacchetto sicurezza” del ministro Amato. Se anziché decidere di farlo diventare un disegno di legge, la maggioranza che sosteneva il governo Prodi avesse deciso da subito di fare un decreto, mettendo in chiaro le parti urgenti e rinviando al ddl il resto (così come ha fatto adesso il governo Berlusconi), probabilmente avrebbe dato un segnale, e anche di fronte al tragico evento della donna violentata e uccisa a Roma si sarebbe trovato con le carte in regola di fronte all’opinione pubblica.
Ritiene che il Pd abbia “imparato la lezione”?
Sul problema sicurezza mi sembra che si sia intrapreso, da parte del Pd e del governo ombra, un atteggiamento più responsabile e che, al di là delle divisioni o della diversità di opinioni su alcuni dei temi del pacchetto sicurezza, c’è però una volontà di essere corresponsabili nel confrontarsi su questo tema. Questo è il segnale più importante, a cui poi devono fare seguito dei fatti precisi. Ci vuole la consapevolezza che nessuno ha la bacchetta magica e che non si può essere troppo schiacciati sull’opinione pubblica, altrimenti il rischio è quello di fare delle norme che rispondano soltanto a una preoccupazione immediata, ma che poi si rivelano inefficaci. C’è bisogno di segnali precisi, di gradualità e di dare delle risposte che rispondano al bisogno di sicurezza.
Lei è in realtà è stato sempre una voce un po’ fuori dal coro nel centrosinistra, sul tema sicurezza: c’è addirittura chi dice che la sua posizione non si distingue da quella del centrodestra. Come risponde?
Sul fatto che le mie posizioni possano essere assimilate a quelle del centro destra, rispondo che l’approccio al tema, per gli obiettivi che sono in gioco, non possa essere che bipartisan: che va contrastata la delinquenza, che vanno cacciati i delinquenti stranieri che sono nel nostro Paese. Poi le risposte sono probabilmente diverse: ad esempio del pacchetto sicurezza io non condivido l’introduzione del reato di clandestinità, perché mi sembra che da una parte sia una resa sulle espulsioni e dall’altra parte si potrebbe correre il rischio di spingere verso la malavita e le attività criminali molte persone, che sono qui pur clandestimanente ma senza intenzione di delinquere: potrebbero trovarsi a non avere nulla da perdere, avendo già il reato di clandestinità. Credo che l’obiettivo debba essere invece quello di rendere efficaci le espulsioni tempestive e credo che su questo ci sia un terreno di confronto anche col centro destra su quale sia lo strumento migliore per poterlo fare.
In tema di intese bipartisan, la Lombardia ha anticipato la politica nazionale, attraverso un confronto costruttivo tra centrodestra e centrosinistra su determinate materie. Questa capacità di intesa sulle cose essenziali è forse anche caratteristica tipica della politica fatta a livello amministrativo, dove prevale l’urgenza del fare. Quanto può servire questa lezione ai partiti nazionali e in quali forme?
Per quanto riguarda la questione del federalismo, credo che in Lombardia si sia fatto un ragionamento positivo. Intanto la riforma del Titolo V l’ha fatta il centro sinistra – cosa di cui nel resto del paese ci si è un po’ dimenticati. Il centrodestra qui in Lombardia ha preso atto che gli italiani hanno bocciato con il referendum l’altra ipotesi di riforma, quella promossa dal centro destra, dell’introduzione nella Costituzione di un federalismo più spinto. E entrambe le parti politiche si sono date da fare per trovar la via di un’applicazione concreta di quanto già previsto con la riforma del Titolo V, per vedere di estenderlo al resto del Paese. E su questo si è aperto un confronto direttamente sulle cose. Non su tutte le questioni ci si è trovati d’accordo, ma si è fatto un lavoro notevole, anticipando quello che si è visto nel dibattito della campagna elettorale: che le riforme, specie quando sono così incidenti nella vita del paese, debbano essere fatte con la collaborazione, col confronto e con la disponibilità di tutte le forze politiche. Questo mi sembra il segno di un pragmatismo politico che prende atto di certe condizioni e lavora per trarre da queste i migliori esiti possibili. Si è costruito in anticipo sui tempi una modalità di lavoro che oggi è diventata nazionale: quella della campagna elettorale improntata al rispetto, quella dell’impegno alle riforme istituzionali senza approvarle a colpi di maggioranza ma con un consenso allargato e partendo dall’applicazione di una riforma federale della Costituzione che già c’è e che consente spazi di intervento notevole.