Non vi è dubbio che – come afferma il “manifesto” – oggi l’amministrazione della giustizia in Italia sia circondata da una diffusa disistima da parte della società e non vi è dubbio che una parte della stessa la giudichi generalmente inefficiente e spesso asservita a logiche di parte, che sono “antitetiche a quel carattere di indipendenza che dovrebbe costituirne il connotato essenziale”. Peraltro, a mio modesto parere e secondo la mia personale esperienza, mentre mi trova sostanzialmente concorde il giudizio sulla inefficienza (a prescindere in questo momento dalla individuazione delle cause e delle eventuali responsabilità, comprese quelle dei c.d. “utenti”) trovo esagerata sia la (reale) diffusa disistima sia il giudizio circa l’asservimento a logiche di parte.



Quanto alla diffusa disistima, che adesso sicuramente c’è, credo vadano fatte due osservazioni.
La prima è che questa disistima non concerne solo l’amministrazione della giustizia, essendo invece assai generalizzata: non ne sono immuni le istituzioni e i partiti politici, il servizio sanitario, il sistema fiscale, e via dicendo. È difficile trovare una pubblica amministrazione che non sia colpita da questo giudizio, più o meno corrispondente al vero, più o meno generoso o riduttivo.
La seconda è che, per l’amministrazione della giustizia, vale la legge del pendolo. Si va a periodi. Ci sono stati, per l’amministrazione della giustizia, i periodi degli osanna e quelli dei crucifige. Basti ricordare il favore popolare all’epoca di “tangentopoli” (anni ‘92-‘94), dei successi contro il terrorismo rosso, dei primi successi nei confronti di Cosa nostra e di altre organizzazioni mafiose di casa nostra. E ci sono stati, per converso, i periodi del “caso Tortora”, della legge sulla responsabilità civile dei magistrati, e adesso della diffusa insicurezza addebitata anche – in parte, a ragione, in parte (anzi, in gran parte) a torto – alla magistratura. Insomma, è un giudizio tanto diffuso quanto ballerino.



Quanto all’asservimento a logiche di parte, si tratta – sempre a mio parere – di giudizio sostanzialmente sbagliato, se per “parte” o “logiche di parte” si intendono le parti ed i partiti o gli schieramenti politici, di destra o di sinistra o di centro. Il magistrato asservito a logiche di parte in questo senso è poco più che una mosca bianca: e lo è oggi più di ieri. Alla luce della mia personale esperienza, credo di poter dire che la “politicizzazione” della magistratura nel concreto esercizio della funzione giurisdizionale (e cioè nella acquisizione e nel trattamento delle notitiae criminis e dei singoli processi civili e penali) è sicuramente diminuita (penso ad esempio alla evoluzione della giurisprudenza in materia di diritto del lavoro, di reati di terrorismo ed eversione, etc.) rispetto a quella che si ebbe alla fine del ‘68 e negli anni ‘70. Insomma: si tratta di casi isolati, non di un fenomeno generalizzato. Più incerto diventa invece il giudizio per quanto concerne la gestione amministrativa della giurisdizione da parte degli organi a ciò preposti (ministero della Giustizia e Csm), parendomi difficilmente contestabile una degenerazione del sistema delle “correnti” che presiede sia alla vita della Associazione nazionale magistrati sia, di conseguenza, alla formazione ed al comportamento dei Consigli giudiziari e del Csm che ne sono la derivazione. Piuttosto, tornando al concreto esercizio della funzione giurisdizionale, quel che si può dire è che è frequente il fenomeno – a mio avviso deleterio e non giustificabile, anche se per lo più del tutto inconsapevole e involontario – della forzatura del dettato normativo in funzione di logiche culturali che sfuggono a precise collocazioni politiche ma rispondono a modelli che rischiano di diventare veri e propri pregiudizi ideologici: questo appare abbastanza evidente in materia di diritto minorile e di famiglia, di diritto dell’immigrazione, di reati contro la pubblica amministrazione, di tutela della salute, etc. Esistono infatti spesso, in queste materie, delle vere e proprie “scuole di pensiero” che in alcuni casi possono indurre a veri e propri “teoremi giudiziari”: che, in materia di giustizia, sono sempre nefasti, dal momento che la giustizia si deve occupare non di teoremi ma solo ed esclusivamente di casi concreti.



Quel che è vera e certa è la diffusa disaffezione di molti operatori, dovuta al senso di inutilità del proprio lavoro: senso di inutilità che è ampiamente giustificato dalla inefficienza del sistema e da una macchina giudiziaria che, quasi sempre, viene vissuta come la montagna che, quando va bene, partorisce il topolino.

Non vi è poi dubbio che il recupero della efficienza non sarebbe probabilmente sufficiente a restituire la perduta affezione; perché sicuramente alla stessa concorre in maniera determinante un forte senso della propria funzione, che per una serie di ragioni si è, se non dileguato, certo affievolito. Senso che è dato dalla consapevolezza di svolgere una funzione essenziale per la convivenza civile e pacifica di esseri umani che, a sua volta, si nutre di certezza del diritto nei reciproci rapporti. E questa certezza è data, da un lato, dalla ragionevole sicurezza che le fattispecie storiche (in altre parole, i fatti) potranno essere accertati secondo verità, nel loro reale accadimento; e, dall’altro, che il giudice applicherà imparzialmente e nei confronti di tutti la disciplina prevista dalla legge. Inutile aggiungere che è questa certezza (che è poi la certezza del diritto) ad essere andata in crisi.

Per recuperarla, occorre l’opera di tutti, a partire dal legislatore, per passare agli uomini di governo che devono fornire i mezzi per lo svolgimento delle indagini e la celebrazione dei processi, per finire ai magistrati che nel processo devono ricercare la verità dei fatti e applicare ad essi non “le proprie parziali e soggettive opzioni culturali ed ideologiche” (che possono anche vestirsi dei colori di una parte politica) ma la “sovranità popolare espressa dalla legge”. È appena ovvio che la legge stessa lascia al magistrato “inevitabili margini di scelta nel momento della sua concreta applicazione”; e che entro questi margini il magistrato abbia notevoli spazi di discrezionalità sia tecnica che politica. Ma si tratta di spazi che il magistrato deve onestamente riempire non per affermare proprie ideologie, propri valori personali, propri desideri o visioni, ma per cercare di interpretare nel modo migliore possibile la cosiddetta voluntas legis: che può anche modificarsi nel corso del tempo, perché nel corso del tempo si modifica lo stesso complessivo contesto normativo in cui ogni singola norma si colloca, ma che è pur sempre qualcosa di diverso dalla volontà del giudice. In altre parole, il giudice non è chiamato a manifestare una volontà propria, ma una volontà altrui, che deve interpretare in buona fede e secondo coscienza ma senza mai sovrapporsi ad essa.

Sotto questo profilo, mi sembrano allora da rifiutare quelle impostazioni giudiziarie che, magari in nome di nobilissimi valori e principi (quale, ad esempio, quello di solidarietà e fratellanza), in realtà servono per indebitamente “boicottare” una legge non condivisa e ritenuta ingiusta. Cito, a puro titolo di esempio, la cosiddetta legge Bossi-Fini che, al di là delle pur sempre ammissibili eccezioni di legittimità costituzionale, presso certi giudici non è mai riuscita a trovare applicazione. Difficile sottrarsi allora all’impressione che alcuni magistrati abbiano finito per sovrapporre, magari inconsapevolmente, ma certo indebitamente, alla voluntas legis una propria meditata e radicata convinzione personale (politica, morale, culturale, religiosa).

Ma anche sotto il profilo della scoperta e dell’accertamento della “verità” dei fatti storici, vi è molto da dire (e da criticare) in relazione ad un sistema (quale è quello introdotto con il nuovo codice di procedura penale) che sembra aver dimenticato che “lo scopo primario e ineludibile del processo penale è quello di ricercare e scoprire la verità” (come ha dovuto ribadire, in due famose sentenze del 1992, la Corte costituzionale) e sembra invece essersi adeguato alla cosiddetta concezione “agonistica” (o “ludica”) del processo penale, secondo cui lo scopo del processo non è quello di ricercare e possibilmente scoprire la verità sostanziale, ma quello di dirimere una controversia tra parti contrapposte. Di qui un ammasso farraginoso e scoordinato di “regole del gioco” costituite, per lo più, da pretese norme di garanzia (che prevedono tanti termini, tante decadenze, tante sanzioni processuali, tante inutilizzabilità, tanti formalismi inutili, tante cause di prescrizione) ma che in realtà finiscono per proteggere molto gli imputati realmente colpevoli (e che possono permettersi avvocati azzecca-garbugli) e non garantire affatto gli imputati innocenti e magari pure perseguitati.

Non è questa la sede e l’occasione per scendere nei particolari e nei dettagli. Ma sicuramente una delle ragioni degli attuali sentimenti di frustrazione del magistrato è rappresentato dal senso di inutilità di un lavoro che somiglia sempre più ad una corsa ad ostacoli (con ostacoli che aumentano man mano nel corso del processo) e con meccanismi processuali che per un verso ritardano oltre ogni limite tollerabile la definitività della decisione finale, e dall’altro consentono di utilizzare sempre meno gli elementi di prova acquisiti nel corso delle indagini (anche per la loro progressiva dispersione nel corso del tempo e per l’esposizione al concreto pericolo di inquinamento); per non parlare poi della vanificazione del prodotto finale attraverso i cosiddetti istituti “clemenziali” che – invece di favorire il positivo reinserimento del reo nel tessuto sociale – finiscono per ingenerare un diffuso e pericoloso senso di impunità che si ritorce contro la stessa credibilità delle istituzioni.

Insomma: alla base della disaffezione vi è la consapevolezza di lavorare per lo più “a vuoto”, nel senso che ad un immane sforzo e fatica (che negli operatori è presente assai più spesso di quanto non si creda) e ad un enorme costo di produzione non corrispondono risultati apprezzabili per la aleatorietà ed occasionalità del funzionamento di un sistema repressivo che, in queste condizioni, non tutela quasi mai le vittime dei reati, risparmia tutta una fascia di delinquenti di non indifferente spessore e si accanisce invece o sui “piccoli” che non dispongono di reti o mezzi adeguati di protezione o comunque su troppo “pochi” rispetto a quelli che dovrebbero essere perseguiti, condannati e sottoposti ad esecuzione della pena.

In questo contesto, trovano sicuramente posto anche fattori di disorganizzazione o cattiva organizzazione, difetti più meno marcati di professionalità o impegno dei singoli operatori ed infine un sistema ordinamentale (nuovo ordinamento giudiziario) che per un verso è punitivo per tutta la categoria dei magistrati e, per altro, favorisce pure fenomeni di appiattimento burocratico e incoraggia velleità di deresponsabilizzazione.

Ben venga allora l’invito ad un recupero del senso di responsabilità di tutti indistintamente gli operatori di giustizia, governanti, politici e parlamentari compresi; e magari pure una maggiore cultura della legalità anche da parte di coloro che ne sono i destinatari e che troppo spesso vedono nelle istituzioni pubbliche un potere da contrastare o di cui comunque diffidare invece che organi che necessitano di collaborazione e aiuto (ovviamente, nei ruoli che a ciascuno competono).
Ma alla luce di una fondamentale idea: che il “bisogno di giustizia” insito nel cuore di ogni singolo uomo si deve nutrire, in questo Paese, di “verità” dei fatti, di indipendenza e soggezione dei giudici alla legge, e di senso dello Stato e rispetto delle istituzioni da parte di tutti.