Prime scaramucce sul federalismo, come previsto. Da destra a sinistra ne parlano tutti, ma poi stringi stringi ogni forza politica ne ha in testa un suo modello, uguale nel nome ma distante nello schema di riparto di competenze e risorse. Si va dal modello a “due velocità” al “lombardo corretto” al “visto da sud” al più tradizionale “federalismo solidale”.
Una riforma tante ricette, dunque. La prova provata di come si sia alla vigilia di una lunga guerra di trincea sulla madre di tutte le riforme la si è avuta l’altro giorno: il ministro ombra del Pd, Sergio Chiamparino, in un’intervista a la Stampa in risposta al governatore lombardo, Roberto Formigoni, ha di fatto sconfessato la via ambrosiana al federalismo fiscale. Il motivo? Semplicemente non sta in piedi, dice il sindaco di Torino. «Il problema non è il modello, ma i soldi. Sulla ripartizione delle risorse l’ingiustizia infatti è clamorosa. Loro vogliono trattenere l’80% dell’Iva, il 15% dell’Irpef, le accise, e le imposte su tabacchi e giochi. In questo modo – spiega Chiamparino – solo da 3 a 6 regioni italiane sarebbero in grado di gestire i servizi senza dover chiedere maggiori trasferimenti dallo stato o alzare le tasse».
È la posizione dell’opposizione, si dirà. Sbagliato. Perché la tesi di Chiamparino e del Pd nazionale in realtà è simile a quella del Pdl. Nemmeno il partito di Fini e Berlusconi, uscito molto meridionalizzato dal voto di aprile, potrà verosimilmente sostenere uno schema di riforma federale così drastica, che taglia di punto in bianco un grosso flusso di trasferimenti al Mezzogiorno, abbandonando al loro destino regioni tradizionalmente granaio di voti. Questo è il paradosso: la loro posizione è più vicina a quella di un Pd che fa fatica ad abbandonare uno pseudo solidarismo fiscale che spesso è solo l’alibi per nascondere una spesa pubblica e trasferimenti poco efficienti e clientelari, che a quella della Lega.
Il Carroccio, certo, si acconcerà ad un negoziato, Bossi è un politico realista, ma qualcosa di sostanzioso a questo giro deve portare a casa oppure perderà molto consenso sopra il Po. Non bastasse, a complicare ancor di più un quadro a geometria variabile, c’è appunto la posizione di Formigoni che, libero da giochi di coalizione ed equilibri di governo, rilancia l’originalità del suo modello lombardo invocando l’applicazione tout court del federalismo alla milanese, forte di un dialogo bipartisan con l’opposizione al Pirellone. Insomma frizioni su frizioni, che tagliano trasversalmente il campo politico.
In questo scontro, la via più realistica potrebbe allora essere quella avanzata dal neonato movimento dei sindaci veneti. Centocinquanta amministratori di destra e di sinistra indistintamente, giovani e vecchi, falchi e moderati ma tutti stufi di una sperequazione fiscale che non fa differenza tra comuni virtuosi e in dissesto. La proposta che fanno al governo è di poter tenere in casa il 20% del gettito Irpef a partire dal 1° gennaio 2009, anche a recupero dei mancati introiti Ici. Un progetto che permetterebbe, secondo i calcoli della Cgia di Mestre, «di arrivare ad un saldo positivo di 1.307 milioni di euro per il solo Veneto (2 miliardi 229 milioni di Irpef contro un taglio di 992 milioni di Ici). E a 10 miliardi, estendendolo a tutti i comuni italiani. In pratica si tratta di una piccola rivoluzione: superare l’attuale sistema dei trasferimenti erariali, con i soldi che vanno a Roma e poi, dimagriti, tornano sul territorio.
Ma anche qui. Davanti ad una proposta che sale dal basso, ecco che le dinamiche della politica tornano a fare premio sul riformismo, con la Lega che decide di boicottare questa richiesta di federalismo fiscale. Teme di perdere il copyright sul federalismo. Al contrario, il movimento è appoggiato dall’arcinemico Giancarlo Galan, che sta giocando una dura battaglia politica contro un Carroccio uscito fortissimo dal voto di aprile. A riprova che non è possibile distinguere la sfida del federalismo dai rapporti di forza politici specie dentro la maggioranza.



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