Non è usuale, non è una parola che riecheggi facilmente nemmeno nei programmi elettorali fatti per cercare consenso, figurarsi quando mai si è sentita pronunciare una parola difficile come “sussidiarietà”, nel primo discorso dopo un trionfo elettorale. Ha colpito soprattutto per quella parola l’esordio di Gianni Alemanno da sindaco di Roma. Come ha impressionato quel che ha detto Gianfranco Fini, proprio Fini, nel suo primo discorso da presidente della Camera dei deputati, sul relativismo etico e culturale che minerebbe oggi l’Italia più di ogni altro pericolo.
“La mia stella polare sarà la sussidiarietà”, ha spiegato nel suo primo giorno da sindaco Alemanno, tratteggiando un suo progetto di passaggio dal “welfare state” alla “welfare community” o alla “welfare society”. E raccontando di una campagna elettorale svolta sul territorio capillarmente (è anche in questo modo tradizionale e reale, non ad uso dei riflettori, il segreto del trionfo elettorale di Alemanno) trovando delusione e amarezza in molte comunità organizzate e radicate nei quartieri di Roma. Slogan che non sono in sé nuovi: anche il sindaco uscente,
Mai giudicare un uomo politico da uno slogan: se ne pronunciano tanti, e si perdono presto nella memoria degli elettori. Sono i fatti, la cronaca del suo modo di governare a consentire il vero giudizio. Ma proprio quella parola difficile, non di comune uso, che è “sussidiarietà”, segnala la genuinità di una intenzione, forse proprio il fondamento di un progetto politico piuttosto che il tentativo di lisciare il pelo a categorie di elettori più influenti di altre. Conosco Gianni Alemanno da anni, e il suo percorso personale e so bene che quella sussidiarietà non ha pronunciato a caso. Non a caso gli fosse andata male a Roma era pronto per lui un posto nel governo al ministero del Welfare. Nonostante quel che di lui si è detto in campagna elettorale, non c’è in Alemanno traccia di quel dna veteromissino che un sistema economico avrebbe voluto sempre costruire poggiando sull’architrave dello Stato-società. Lui si porta dietro invece un po’ di movimentismo, una tradizione, perfino una fede che dicono come lo Stato debba lasciare il passo, e anzi favorire e semmai suscitare la libera organizzazione della società. Vale la pena seguirlo in questo programma, che non gli è innaturale, e incuriositi attendere idee e proposte da un Comune che sia in grado di ritrarre la sua presenza – assai invasiva a Roma – per delegare alla società funzioni che potrebbero essere meglio svolte da altre libertà. Dall’educazione a una serie di servizi sociali che oggi certo non sono il primo biglietto da visita della capitale…