Silvio Berlusconi è stato tentato di mettere al governo ministri esterni al centrodestra: si era esaminata la possibilità di affidare il Lavoro addirittura a Pietro Ichino, si era discusso concretamente di una candidatura di Corrado Passera. In altro senso, l’entrata nell’esecutivo di Roberto Formigoni avrebbe dato autorevolezza alla compagine.
Alla fine si è preferito puntare su un esecutivo più “presidenziale” in cui accanto a uomini “forti” (tra i primi Giulio Tremonti e Maurizio Sacconi, ma anche Franco Frattini, Claudio Scajola, Ignazio La Russa, Altiero Matteoli, naturalmente il trio leghista Bossi-Maroni-Calderoli, Renato Brunetta, Raffaele Fitto) abbondano – anche in ruoli importanti come Giustizia e Istruzione – “giovani politici” da sperimentare o comunque personale politico più da combattimento che da parata. In questo senso il governo 2001-2006 vedeva personalità più caratterizzate (da Antonio Martino a Giuseppe Pisanu a Letizia Moratti alla meteora di Renato Ruggiero).
Berlusconi ha avuto ben due occasioni per verificare che cosa significa guidare un esecutivo. Al terzo tentativo non può invocare alibi: se ha scelto una squadra più esecutiva in tanti aspetti che elaborativa, avrà i suoi disegni. Dovrebbe affiancare al lavoro di governo un confronto con la complessa realtà della società italiana, che non è possibile non solo riformare ma neanche indirizzare senza un duro sforzo culturale. Si può affidare questo compito al cosiddetto Popolo delle libertà? Può darsi.
Il nuovo governo ha un nucleo lombardo-veneto come quelli di centrosinistra avevano un’anima romana. L’esecutivo misurerà la sua possibilità di successo dalla capacità di impostare una riforma in senso federalista del sistema fiscale: il motore di questa scelta è lombardo-veneto e dunque il nucleo centrale dell’esecutivo non può non venire da questa area del Paese. Interessante però l’attenzione berlusconiana per l’altro polo federalista, la Sicilia che con il trio Alfano-Prestigiacomo-Schifani sarà decisiva per le sorti del programma. Nel centrodestra peserà come sempre Roma, innanzi tutto con Gianni Letta, Gianfranco Fini e dall’esterno Gianni Alemanno. Una parte del polo lombardo veneto ha lavorato per contenere il peso politico della Capitale (così i balletti sulla vicepresidenza). Forse rispetto al passato, anche per la mancanza di un partito dalla logica rigidamente centralistica come l’Udc, l’anima romana sarà un po’ ridimensionata; chi spera che evapori, però, si fa illusioni.