Secondo Lei quali devono essere i punti principali di una legislazione che risponda concretamente e in maniera efficace al problema casa, andando incontro al bisogno di tutta quella parte di cittadini che non è in grado di avere un’abitazione?

In realtà occorre partire dall’esperienza e non dalle idee. Noi ce la stiamo facendo, è l’esperienza delle otto aree pubbliche che abbiamo messo a gara, da cui emerge che c’é bisogno di un forte coinvolgimento di realtà come le fondazioni e le associazioni: realtà capaci di immobilizzare il proprio capitale per qualche decennio, avendo un ritorno del capitale stesso che sia nell’ordine del 3-4%, al di sotto dei valori di mercato.
Per focalizzare gli elementi importanti nell’azione legislatore che vanno sistemati, occorre fare chiarezza su cosa si intende per “housing sociale”: troppe categorie si trovano in una confusione nata dalla sovrapposizione di legislazioni che hanno dato via via nuove indicazioni: moderata, convenzionata, sociale, calmierata ecc. Si fa quindi fatica a districarsi.
Per quanto riguarda la parte sociale, chiediamo alla Regione la disponibilità a fare in modo che nelle liste d’attesa (qualora siano operatori privati a far partire operazioni che rispondono al tema sociale legato alla casa) l’operatore possa scegliere. Questo fa sì che si generi un meccanismo virtuoso: uno che fa parte di quella lista non ha il diritto alla casa, ma a un bisogno che esprime. L’amministrazione, con responsabilità, deve fare i conti con quel bisogno e deve coinvolgere con responsabilità tutti coloro che possono dare una risposta organica. Allora è chiaro che si coinvolge il mondo cooperativo, le fondazioni, le associazioni presenti sul territorio, i costruttori, le banche. È ovvio che nel tentativo di questa risposta non si può ritenere che ci sia un diritto alla casa a tutti i costi, cioè qualsiasi sia il comportamento di chi manifesta questo bisogno.
Poter scegliere la lista di attesa vuol dire generare un meccanismo virtuoso che fa sì che ciascuno dei bisognosi dimostri di mettersi nelle condizioni di ricevere una risposta al proprio bisogno.

Quale deve essere nelle linee generali l’attività dell’amministrazione comunale per quanto riguarda il problema casa?



Ritengo che gli investimenti e i finanziamenti pubblici relativi al problema casa non debbano più andare nella realizzazione e gestione da parte del pubblico stesso degli immobili. Cioè: i Comuni non devono più costruire case, non devono più gestire le cosiddette case popolari che non hanno funzionato. Abbiamo ghetti in tutte le città dove ci sono monofunzioni, cioè solo casa e monoclasse sociale, cioè solo stato di necessità, gestiti dall’amministrazione. Così non funziona.
I finanziamenti pubblici dovrebbero contribuire a dare garanzie a chi immobilizza il capitale per i decenni (due, tre, quattro decenni), per avere l’affitto pagato da tutti. Oggi se un privato investe in questa direzione non ha la garanzia che poi tutti gli inquilini paghino l’affitto; è il capitale pubblico che deve dare questa garanzia, con una sorta di buono-casa.

Naturalmente le politiche della casa non possono essere affrontate solo a livello local, ma necessitano anche di un intervento nazionale, come ad esempio sull’aspetto della fiscalità. Che cosa è necessario fare secondo da questo punto di vista?



Bisogna intervenire sulla fiscalità per le case in affitto. Oggi questo tipo di fiscalità non funziona, per cui il ritorno che uno ha affittando la propria casa è pari al ritorno di un investimento qualsiasi. Questo genera una situazione per cui non conviene a nessuno affittare case e tenere patrimoni, per cui le case vengono affittate in nero o a prezzi talmente alti che siano paragonabili a investimenti di altra natura. Questo va modificato.

Milano, in vista dell’Expo 2015, si dovrà modernizzare e abbellire, anche dal punto di vista edilizio: c’è l’assicurazione che questa operazione di ammodernamento non avvenga a discapito di chi non ha nemmeno una casa?



Io credo che la vittoria di Milano per l’Expo 2015 passi attraverso le risposte strutturali che in questi anni, da qua al 2015, saremo in grado di dare. Uno dei temi fondamentali sarà quello della casa: sfruttando strutture di cui Milano avrà bisogno in quei sei mesi dell’Expo, ma di cui poi non avrà più bisogno. Per esempio il villaggio dell’Expo, che sarà realizzato a Cascina Merlata, genererà, il giorno dopo la fine dell’Expo, alloggi in housing sociale.
Allo stesso modo stiamo lavorando sulla realizzazione di un luogo ricettivo di livello medio di cui Milano avrà bisogno in quei sei mesi per accogliere i 30 milioni di visitatori; ma è ovvio che poi quegli alberghi andranno a far parte di un mercato che diventa troppo largo rispetto al bisogno che sarà espresso il giorno dopo l’Expo. Se quegli stessi alberghi, una volta realizzati e usati fino all’Expo 2015, potessero diventare edilizia temporanea, credo che avremo dato la risposta strutturale attraverso un percorso di risposta a un momento speciale.
Stiamo lavorando e modificando man mano l’impostazione, che dovrà essere quanto più flessibile possibile, e quanto più innovativa possibile per dare delle risposte strutturali che fin’ora non siamo stati in grado di dare alla città.