Il No al Trattato di Lisbona è una pesante battuta d’arresto per tutti coloro che speravano di rimettere in moto il metodo d’intervento che ha portato pace e sviluppo per 50 anni. Non possiamo sottrarci alla responsabilità di questa sconfitta, frutto senza dubbio della persistente lontananza delle istituzioni europee dai cittadini, non si può prospettare cessione di sovranità senza che l’ultimo dei cittadini ne sia pienamente cosciente.
Non c’è dubbio che il Trattato sull’Unione europea, firmato a Lisbona nel dicembre 2007 avrebbe potuto accrescere la democraticità dell’Unione. L’organo legislativo per eccellenza, quello che in tutti gli Stati nazionali ha competenza esclusiva (o quasi) per quanto riguarda l’iniziativa legislativa, vale a dire il Parlamento europeo, sarebbe stato considerato in questo caso il grande vincitore del Trattato di riforma.
Questo pur conservando il Trattato elementi di incompletezza ed evidenziando modesti progressi per quanto riguarda il processo decisionale.
L’estensione della procedura di codecisione al 95 per cento della legislazione dell’Unione, poteri in materia di bilancio, nuovi poteri in materia di delega legislativa, elezione del presidente della Commissione, poteri di iniziativa in materia di revisione dei Trattati gli avrebbero consentito un’influenza mai verificatasi nei confronti delle altre istituzioni europee. Questo avrebbe comportato senza dubbio un rafforzamento della dimensione federale dell’Unione europea. Nella Federazione si decide con voto a maggioranza nella Camera che rappresenta gli Stati e la Camera che rappresenta il popolo/popoli partecipa alla formazione della legislazione su un piede di parità. Il salto di qualità era molto evidente, considerato anche che il Consiglio avrebbe deciso a maggioranza qualificata per la stessa percentuale di legislazione del Parlamento.
Ma la valanga dei no irlandesi ha bruscamente interrotto questa strada mettendo a nudo il tradimento che nel tempo è stato fatto del sogno degli Stati Uniti d’Europa ascrivibile ai padri fondatori e lasciando i 500 milioni di cittadini dell’Unione alle prese con un singolare deficit di democrazia.
Perché il deficit sia superato definitivamente occorre tuttavia dare vita a un vero dibattito politico europeo, c’è la necessità di creare un’opinione pubblica europea, la dimensione europea deve svincolarsi dalle logiche nazionali, la politica europea deve entrare nel cuore e nell’impegno concreto dei cittadini. La nostra responsabilità per la vittoria del No al referendum in Irlanda sta tutta qui, la sconfitta è il frutto della persistente lontananza delle istituzioni europee dai cittadini.
Il Parlamento europeo deve evidenziare un vero confronto politico, altrimenti corre il rischio di non interessare ai cittadini e sarà da essi considerato sempre come un’entità astratta e lontanissima dalle loro esigenze. Anche su questo abbiamo avuto dei segnali positivi come nel caso della direttiva servizi, oppure nell’attuale confronto sull’immigrazione. Su questi argomenti c’è stato lo stesso dibattito in molti Paesi membri, con un esponenziale coinvolgimento dell’opinione pubblica in tutti questi Stati.
Chi invece ha puntato tutto sulla tentazione di lasciar fare alle tecnocrazie ha prodotto la crisi del sistema e, minando la credibilità di coloro che intendevano continuare a scommettere sul progetto politico “Stati Uniti d’Europa”, ha prospettato per una generazione di rassegnarsi a una sorta di Unione delle Repubbliche Socialiste europee, fatta di omologazione e di mancanza di decisioni.
Adesso sarà più difficile raggiungere un obiettivo di tale portata, ma di certo nulla è perso e di certo non si tornerà alla paralisi del 2005 dopo il No di Francia e Olanda.
Tutte le forze politiche in seno all’Unione hanno una ghiottissima occasione con le elezioni europee del 2009 per dare un decisivo impulso alla creazione di una dimensione politica europea. Oltre alle elezioni dei membri del Parlamento, la presentazione di candidati alla Presidenza della Commissione prima delle elezioni da parte dei partiti politici europei potrebbe essere un primo passaggio determinante, stimolato dalla creazione di fondazioni politiche europee legate ai partiti europei con l’obiettivo di sviluppare dibattito politico. Le maggioranze che saranno raggiunte saranno così sempre più politiche e quindi più stabili sia all’interno del Parlamento, sia nel Consiglio. Da ultimo, nonostante non avesse più un carattere costituzionale, il nuovo Trattato avrebbe mantenuto le discutibili realizzazioni della Costituzione in materia di legittimità democratica, efficacia e rafforzamento dei diritti dei cittadini.
È quindi urgente che dopo quest’ennesima bocciatura iniziamo a capire che questi sono i frutti di un approccio errato al processo di integrazione, di una posizione politica che non vuole partire dalla realtà, dalla domanda: «cos’è l’Europa?», emblematica interrogazione sui fondamenti stessi dell’integrazione europea. Benedetto XVI ricorda come i grandi pericoli contemporanei per la convivenza fra gli uomini giungano dal fondamentalismo, la pretesa di prendere Dio come pretesto per un progetto di potere, e dal relativismo, ossia il ritenere che tutte le opinioni siano vere allo stesso modo.
L’involuzione del progetto politico che chiamiamo Unione europea è riconducibile proprio a questi fattori. Il problema dell’Europa nasce dal fatto che il rapporto tra ragione e politica si è sostanzialmente sviato da ciò che è la nozione stessa di verità. Il compromesso, giustamente presentato come senso della stessa vita politica, è oggi concepito fine a sé stesso.
È per questo che si deve scegliere di mettere a fuoco le principali politiche dell’Unione europea utilizzando come filo conduttore le intuizioni dei padri fondatori e la promozione della dignità umana insita nell’esperienza cristiana.
“Ciò che unisce è più forte di ciò che ci divide” è questo il giudizio semplice e grande dal quale sono partiti Schuman, Adenauer e De Gasperi. Se alla luce di questo giudizio ripensiamo ai mille tentennamenti, ai mille egoismi dei governanti degli ultimi venti anni, ci rendiamo conto di quanto sia difficile per una generazione percepire l’Europa come un bene indispensabile.