Nella politica irlandese non si è forse mai avuto un risultato così difficilmente decifrabile come la disfatta del Trattato di Lisbona nel recente referendum. Non si può attribuire il risultato, 53,4% contro 46,6% (una differenza di 110.000 voti) a una specifica critica o analisi, su cui sarebbe possibile ridiscutere per riconquistare i dissenzienti. Né, si assicura da tutte le parti, si tratta di un No all’Unione Europea, ma solo ad alcuni suoi aspetti particolari, anche se nessuno sembra essere sicuro di quali siano.
Molti di quelli che hanno votato contro il Trattato ammettono di averlo fatto perché non lo hanno capito, malgrado una campagna durata parecchi mesi. Altri fanno riferimento a punti critici del Trattato riguardanti la neutralità dell’Irlanda, il regime fiscale o l’aborto, ma, dato che semplicemente non ci sono, non possono quindi essere sistemati. Vi sono stati senza dubbi vaghi, ma comuni, timori di una crescente invadenza burocratica e di una perdita di autonomia nell’area legislativa e fiscale, per molti anni elementi rituali nei dibattiti sull’UE.
Tuttavia, non vi è la sensazione che l’elettorato abbia espresso una sola posizione coerente; lo slogan più efficace della campagna, perciò, sembra essere stato: “If you don’t know, vote no” (Se non sai, vota no).
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Si è anche detto che il risultato riflette un profondo scetticismo, o peggio, nei confronti della classe politica che ha partecipato alla campagna schierandosi per il Sì. Dei partiti presenti in Parlamento, ha invitato a votare No solo lo Sinn Fein, un’organizzazione marginale la cui base principale è a Belfast, la capitale del Nord. Perfino il Green Party, a lungo tempo sostenitore del No, ma ora al governo, si è schierato per il Sì. I partiti hanno cercato, per lo più, di personalizzare la campagna utilizzando le facce sorridenti dei loro rappresentanti più noti, e molti elettori lo hanno visto come un atteggiamento paternalistico.
È stato osservato che il risultato indica una divisione di classe molto netta, con la tendenza a votare Sì delle aree urbane abitate dalla classe media, con le aree rurali e meno ricche tendenti invece al No. Cosa questo significhi non è del tutto chiaro a nessuno.
Tutte queste analisi sembrerebbero però essere grezze e superficiali. Andando più al fondo, il rifiuto del Trattato di Lisbona sembra evidenziare qualcosa di più oscuro, una specie di furia senza un preciso bersaglio. È come se il Trattato fosse stato una sorta di cataplasma che ha portato fuori un’intera serie di risentimenti purulenti, molti dei quali non specificati e perfino negati in pubblico, che hanno concorso a creare un unico problema politico, per il momento non affrontabile.
L’Irlanda ha beneficiato per molti anni dell’aiuto dell’UE, attraverso i fondi strutturali e di coesione, ma recentemente questi pagamenti sono venuti meno. Questo ha coinciso con la fine del boom dello scorso decennio, dando luogo a una situazione di grave incertezza e paura. Molti si ritrovano con debiti in un momento in cui l’economia irlandese deve confrontarsi con un aumento della disoccupazione e dell’inflazione, con tassi di interesse più elevati e con una stretta creditizia.
La simpatia che ha circondato l’unione con l’Europa ha cominciato a indebolirsi. Molti degli immigrati dall’Europa orientale sono ripartiti e la sensazione è che quelli rimasti siano in molte zone accolti meno bene rispetto al passato.
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In questo contesto di ansietà e di scontentezza, non era difficile si creasse confusione e molti non hanno creduto che il Trattato di Lisbona fosse semplicemente una serie di misure amministrative, complicate ma anodine. Non sono stati solo gli elettori a dire che era difficile leggere, non diciamo capire, il documento. Perfino il Taoiseach (il primo ministro) ha ammesso di non averlo letto interamente e il commissario UE irlandese ha dichiarato che uno dovrebbe essere matto per mettersi a leggerlo. A campagna inoltrata, con un tocco farsesco, il presidente della Commissione per il Referendum, l’organo governativo preposto a spiegare obbiettivamente il Trattato, ha affermato in una conferenza stampa di non averne capito una parte. Un famoso giornalista si è messo a leggere ad alta voce parti del documento, come se fosse un testo teologico, enigmatico ma significativo, in raduni pubblici e nel suo programma televisivo, con grande gioia degli spettatori.
Alla fine, ciò che risulta è la insoddisfazione della gente. La campagna non è riuscita a creare una corrispondenza tra i desideri degli elettori e ciò che gli veniva chiesto di fare: questo è vero sia della campagna per il No che di quella per il Sì, perché, ora che tutto è finito, non vi è nessuna sensazione di allegria, di soddisfazione, se non tra una piccola minoranza di attivisti di estrema destra e di estrema sinistra.
È come alla fine di un’accesa discussione, quando i contendenti si guardano negli occhi con un senso di imbarazzo e di iniziale coscienza di essere andati troppo oltre, e si fa strada la necessità di rimettere le cose a posto. C’è persino l’impressione che molti abbiano votato No convinti della vittoria dei Sì, sentendosi così liberi dalle possibili conseguenze di quello che era in realtà un gesto di rabbia. Nonostante un sondaggio indicasse, dieci giorni prima del voto, una prevalenza di No, l’opinione generale era che da allora i Sì stessero recuperando terreno.
Forse la cosa più logica che si può dire è che il Trattato di Lisbona non è soddisfacente. A questo proposito, mi tornano in mente le parole di Vaclav Havel, il grande scrittore, filosofo ed ex presidente della Repubblica Ceca, leggendo molti anni fa il Trattato di Maastricht: «Dentro la mia ammirazione, inizialmente prossima all’entusiasmo, incominciò a intromettersi un sentimento meno esuberante, fastidioso. Mi sentivo come se stessi guardando dentro i meccanismi di una macchina moderna, assolutamente perfetta e ingegnosa. Studiare una simile macchina era senza dubbio una grande gioia per un appassionato di innovazioni tecniche, ma per me, il cui interesse nel mondo non è soddisfatto dall’ammirazione per macchine ben oliate, qualcosa era gravemente mancante. Lo si sarebbe potuto chiamare, in un modo piuttosto semplificato, una dimensione spirituale o morale o emozionale. Si stava parlando alla mia ragione, ma non al mio cuore».
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Questo può essere vicino al sentimento sottostante al No irlandese a Lisbona. Tranne che, in un senso diverso da quanto intendeva Havel, non si è parlato neppure alla ragione. Dopotutto, non è stato irragionevole chiedere alla gente di sostenere qualcosa che non riusciva a capire?
Ogni entità sopranazionale che nella storia ha aumentato il valore dell’umanità, disse Havel, è stata spinta da uno spirito, un’idea, un ethos, una qualità carismatica, da cui sono poi originate e cresciute le strutture. Per essere vitali, queste entità devono offrire una qualche chiave all’identificazione emozionale, un ideale che parli alle persone e le ispiri, «una serie di valori comprensibili da tutti e che ognuno può condividere». Non si può negare che l’Unione Europea, con le sue radici nella sua tradizione cristiana, giuridica, civile e culturale, fosse basata su un tale spirito. Ma questo spirito, avvertì Havel, era difficile da vedere, nascosto «dietro le montagne di misure organizzative, tecniche, amministrative, economiche, monetarie e altro, che lo circondano».
Il compito più urgente di fronte alla Unione, perciò, è «creare di nuovo questo carisma», e il primo passo di questo processo, suggerì Havel, è la formulazione di un «documento politico unico, cristallino e universalmente comprensibile che renda immediatamente evidente cosa l’Unione Europea è realmente».
Forse questo significa che se l’UE vuole davvero imparare qualcosa dal voto irlandese, deve tornare alla lavagna e iniziare a ridisegnare dal fondo la propria immagine.